“Nel Sannio tutto è roccia. L’accento che mal si accorda con la lingua dei conquistatori, le case, i sentieri, le fonti. Ma anche i lineamenti della gente e i loro pensieri”.

Nel Sannio tutto è roccia. Anche quel ragazzino in disparte che fissa le guglie di un immenso roccione che lui chiama Fiscellus e che oggi è diventato il Gran Sasso degli Abruzzi.



Comincia così, come sulla linea di un’arcaica orogenesi, questa storia di Ponzio Pilato, uno che innanzitutto è figlio di Gaio Ponzio, anch’egli immenso – e fiero – condottiero sannita, forse troppo immenso, per gli occhi di un figlio.

Comincia così, inerpicata tra le rocce del passato, anche l’avventura letteraria di Camillo Bartolini, “autore di solida formazione classica e docente in un importante liceo milanese”, come lo definisce Stefano Alberto nella bella prefazione al volume.



Questa sua prima fatica, intitolata Secondo Pilato (Cantagalli, 2023) è un romanzo storico capace di calare e calamitare il lettore nella vita non solo di Ponzio Pilato, ma di Roma nell’età del primo impero e del Vicino Oriente, in tutta la sua disarmante contraddizione millenaria.

Bartolini tesse la tela della storia attorno a due essenziali filoni: la sua vivida passione per il passato romano e cristiano, che ben conosce, e un’intima immedesimazione con la figura del prefetto Pilato, che di questa immedesimazione respira, suda e persino ragiona.

Ugual sudore ha prodotto il suo autore, che non ha certo voluto affaticarsi per lasciare una scolorita agiografia da scaffale, ma ha scalpellinato la materia fino a vederne venir fuori un inedito bildungsroman, di certo più adatto, visto che il protagonista è un romanus, colto in presa diretta dai suoi primi passi fino al misterioso compimento.



Sono pagine piene di gente: servi, commilitoni, sommi sacerdoti, barbari, una moglie, Claudia Procula, fedele e viscerale, pronta a compromettersi fino al sacrificio; un amico giudeo, Abenader, così leale da diventargli buon samaritano, prefigurando quel Cristo che Pilato lascerà morire in croce; e ancora imperatori, centurioni, ribelli.

Un uomo che ci somiglia, non una statua ben calibrata per adempiere il tipo storico, e nemmeno un’icona del passato sezionata coi ferri dell’introspezione, un tipo come noi, giorni e stanze affollate da gente che più o meno si ha voglia di vedere, amici apprensivi e compagnoni, eppure preda di una grande solitudine, spesso ingiustificata e cocciuta.

Un chiodo fisso: il padre. Rapporto inevitabile calato sul collo dell’uomo Pilato, ne irretisce, come un giogo, ogni mossa, ogni espressione. Questo padre così italico, così sannita, così tutto mores maiorum, è il legame inestirpabile con quella terra che lo ha originato. Arrivando poi nella sala del pretorio, davanti a quello strano nazareno, ma con tutto questo negli occhi della memoria, la ragione del lettore sente come un tuffo, cominciando a intuire cosa vuol dire che il cristianesimo è storia. Storia delle storie, storia che lega le storie e le pone su un punto di fuga totale, nell’unico Mistero.

Ma il bello viene dopo: la storia non finisce nel suo apice drammatico, continua nelle quinte dietro il sipario. In questo seguendo le tracce di Lagerkvist nel suo Barabba post salvezza, Bartolini ci fa gustare il Pilato mai detto. Perché il bello della storia è che continua, e diventa vecchiaia anonima, o demenza, o inasprita solitudine e spaesamento, ed è proprio lì dove lascia il suo segno più inconfondibile: compie le premesse, nella prospettiva del destino. Compiuto non vuol dire salvato; in tutta la Divina Commedia non c’è un’anima che non sia compiuta – nemmeno il conte Ugolino – ma è proprio il mistero inclassificabile della libertà umana che trasfigura la storia, quando osservata sub specie aeternitatis.

Onore all’unico vero merito dello scrittore quindi, aver fatto riecheggiare la sola domanda che conti per il lettore che non si lava le mani: quid est Veritas?

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