Sono passati trent’anni esatti dalla pubblicazione in Italia del testo di Vitalij Šentalinskij, I manoscritti non bruciano. Gli archivi letterari del KGB (Garzanti, 1994). Ora più di prima il suo lavoro ci interpella in profondità per la straordinaria tensione ideale e morale. Si tratta di una folle idea nata nell’autore nel periodo della perestrojka e animata dall’esigenza di sapere la fine fatta da tanti scrittori inghiottiti dalla voragine della menzogna staliniana. Un orrido oscuro tenuto aperto da tanti piccoli o grandi esecutori di depistaggi, delazioni, falsità sistematiche. Le anime morte di uno Stato totalitario costruito contro l’uomo.



La mossa di partenza dell’autore è una ricerca di verità totale. È simile a quella del capitano Nemo di Jules Verne, personaggio amato dallo studioso nell’infanzia. Il capitano rischia la sua felicità per trovare una dimensione autentica “dove trionfa l’eternità”. Ma come arrivare in quel luogo inaccessibile?



La spinta è data innanzitutto dal sentire strazio per il proprio tempo. Davanti al tormento interiore per una vita globale fuori dalla realtà non si può restare impassibili. Preme dal di dentro qualcosa d’altro che si ribella: il desiderio di sentire nuovamente la parola di alcuni morti, più vivi di certi morti viventi.

Lo sguardo dello studioso cerca perciò gli autori di scritture indelebili, tutti passati dalla Lubjanka, il famigerato edificio dei servizi segreti sovietici. I non allineati, i dissidenti, i “nemici del popolo” sono diventati preziosi per tutti, perché “schiavi della libertà”. Hanno testimoniato, nonostante tutto (tempo dei lupi, fragilità individuale, onnipotenza del partito comunista), con il loro essere e con le loro vite una differenza imbattibile. Il loro destino storico è stato deciso e nascosto, con burocratica attenzione, per anni, dal Potere sovietico. Un potere della stessa natura di quello del Grande Inquisitore di Dostoevskij.



Nel testo del grande scrittore, infatti, Gesù viene accusato, perché si autoaccusi, perché abiuri, perché possa essere scacciato dal cuore umano. Il processo serve a demolire l’altro e a condannarlo all’oblio. E gli inquisitori della Lubjanka hanno fatto lo stesso con tanti scrittori e con milioni di persone. Il loro impeto è stato biblioclasta, volto a distruggere i manoscritti e le tracce di presenze incontrollabili dal sistema. Dal loro Panopticon, nascosti nell’ombra spirituale, i čekisti controllavano le esistenze di tutti, soggiogando popoli e volontà libere. Minacce psicologiche, attacchi personali e ricatti morali, per giungere al crollo e a una firma su documenti di autoaccusa.

Alcune strategie di annientamento della personalità sono delineate con precisione dal vicecommissario Agranov, in una riunione del 1935: “La nostra tattica di annientamento del nemico consisteva nel mettere l’una contro l’altra queste canaglie e farle litigare tra loro. Era un compito difficile. Ma farli litigare era necessario perché tutti questi traditori erano strettamente legati l’uno all’altro”. Una scientifica recisione dei legami dell’accusato con gli altri uomini, con gli amici e con se stesso, dunque. Un isolamento necessario a produrre nei prigionieri abbandono desolato e crollo finale.

Negli archivi del KGB, riaperti dopo tante difficoltà e opposizioni per un breve lasso di tempo, l’autore trova l’applicazione di tale metodo disumano in tante confessioni, come quella del grande scrittore Pil’njak, colpevole di aver scritto opere considerate trockiste. Lo scrittore, catturato dalle “giacche di cuoio” nella sua dacia di Peredel’kino e portato alla Lubjanka, negli interrogatori fa sue le menzogne estortegli con la manipolazione mentale e la violenza psicologica. Dice di essere una spia giapponese e di aver pensato di uccidere Ežov. Su un fogliettino giallo degli archivi, Šentalinskij scopre con esattezza la data della morte per fucilazione: 21 aprile 1938.

E poi viene a conoscenza con la sua coraggiosa e caparbia investigazione anche della morte di Babel’, accusato di essere trockista antisovietico e agente francese, fucilato a Mosca il 27 gennaio 1940. Pochi giorni dopo furono uccisi Mejerchol’d e Kol’cov.

Dagli archivi – poi chiusi alla verità storica e alla pietà umana – emergono, ancora, le storie e i dossier di tante vittime della politica totalitaria: Averbach, Florenskij, Kljuev, Mandel’štam e altri ancora.

Dagli armadi della vergogna viene anche alla luce l’accusa fatta – dietro suggerimento degli apparati repressivi – da Giduljanov, uno studioso di diritto, contro Florenskij per salvarsi vita, ossia l’invenzione di un fantomatico comitato antisovietico il cui ideologo sarebbe stato proprio il genio russo.  Giduljanov scrive: “Nel corso dell’incontro organizzato da Radzilovskij convinsi il professore Florenskij a seguire il nostro esempio e a confessare tutto sinceramente, poiché con la sua ostinazione ritardava la nostra liberazione… Florenskij mi comprese e imboccò anche lui la via dell’autoaccusa”. Un gesto d’amore e di salvezza, dunque, fatto dal prete ortodosso, martire della menzogna bolscevica prodotta dall’ideologia dell’uccidere (Voegelin) che considera gli uomini semplici “schegge” (Zazubrin).

Florenskij si autoaccusa per salvare altre vite, dichiarando con la sua firma che l’altro è un bene da custodire. È il testamento di chi ha a cuore la vita. Ogni essere umano, nella sua ottica, è stato pensato per un destino buono e grande. Il contenuto profondo della sua esistenza diventa, così, un’eredità di vita offerta a chi cerca il senso del suo stare al mondo.

Il Potere omicida, nella sua mistificazione e contraffazione, aveva comunque individuato il punto centrale della vita di Florenskij: l’amore. L’amore, però, è proprio ciò che mette a nudo la falsificazione della verità. Chi dà la sua vita, infatti, indica una strada radicalmente diversa rispetto al ladro che furtivamente la ruba, tentando di invadere l’anima. È la strada di un destino di grandezza unica. Chi è in sintonia con essa come l’autore del saggio scrive: “So soltanto che esiste. E esiste anche la santità, anche se invisibile, come era invisibile il nimbo sul capo di Pavel Florenskij”.

L’esperienza fatta nella ricerca dal saggista, quella di un contatto effettivo con anime vive e poi comunicataci, è, in qualche modo, comprensibile grazie alle parole del grande scienziato Lomonosov, citato nell’introduzione. Consiste nel trovarsi davanti a “un abisso pieno di stelle, le stelle senza numero, l’abisso senza fondo”.

Tutti i popoli dell’URSS, per un lungo e terribile periodo, sono stati costretti in una morsa interiore, in una tortura morale, in un tentativo di chiudere per sempre la bocca dell’anima a tutti. Sono “vissuti con una coscienza storpiata, con il cuore ferito, con lo spirito deformato” a causa della Lubjanka. Quanta sofferenza e “quante vite aveva spezzato e triturato quella fabbrica di terrore e morte senza precedenti nell’umanità, quante anime avevano trovato qui il freddo della morte!”.

Con che dolore dunque guardare al rialzo, a Mosca, della statua del fondatore della Čeka, Dzeržinskij, distrutta nel 1991, e al susseguirsi di gravi avvenimenti liberticidi (arresti dopo il funerale di Navalny, condanna a Oleg Orlov e attacchi a Novaja Gazeta)?

Il ritorno del “ferreo Feliks” Dzeržinskij e le nuove persecuzioni fatte dall’ideologia del buio vanno oggi contro il cuore di ogni uomo. Il nostro essere profondo resta, però, inestirpabile. E ogni giorno e su tutto ha fame di verità, libertà e pace.

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