L’anno in corso, questo tempestoso 2022, ha visto scadere non poche ricorrenze centenarie: da Marcel Proust a Pier Paolo Pasolini, da Vittorio Gassman a Ettore Bastianini a Renata Tebaldi. È a quest’ultima, a quella che tutti da anni chiamano “la voce d’angelo” che vorremmo qui dedicare alcune righe. Che intendiamo fondare non tanto su connotati meramente “vociologici”, quanto su un più ampio ventaglio di dati che coinvolgono certamente l’artista, ma anche la donna e il suo tempo. Perché nei trent’anni esatti della sua carriera (1946-1976) ella fu anche un’immagine senza dubbio emblematica.



Ciò che intendiamo dire sarà più chiaro se posto in parallelo col mondo del cinema. Il Ventennio (invero alla “settima arte” assai attento a fini di propaganda) aveva approvato e schematizzato almeno due prototipi femminili: la ragazza graziosa, semplice e ingenua (Assia Noris, Irasema Dilian) o la bellissima peccatrice (Clara Calamai, Luisa Ferida, Doris Duranti). Versatile e capace di passare da uno schema all’altro con risultati eccezionali apparve, fra gli anni Trenta e Cinquanta, Alida Valli. Il dopoguerra e il Neorealismo proposero modelli nuovi e straordinari per verità umana e temperamento attoriale: Anna Magnani e Ingrid Bergman.



La prima fu certamente una delle maggiori attrici drammatiche italiane di sempre, in un arco artistico che andò dal primo Visconti al maggior Pasolini e in una continua e variegata analisi della realtà femminile, dalla popolana di Campo de’ fiori alla Medea di Jean Anouilh. La Bergman (la cui accesa rivalità con la Magnani non fu mai un mistero) giungeva in Italia per i film di Roberto Rossellini dopo essersi affermata negli Usa come la “ragazza della porta accanto”, come la contraddizione, affascinante eppur quotidiana, delle dive del glamour hollywoodiano, dalla Dietrich alla Crawford.



Il mondo dell’opera ha avuto un cammino d’evoluzione non poi così diverso. Le amate colorature nostrane  – Toti Dal Monte, Lina Pagliughi, Margherita Carosio – incarnavano un’innocenza e una grazia degna delle fanciulle dei telefoni bianchi; le voci drammatiche – Gina Cigna, Maria Caniglia, Iva Pacetti – affermavano la forza volitiva della donna-eroina grata al Regime. Dopo la liberazione e la ripresa della vita teatrale e musicale, fecero irruzione e rivoluzione sui palcoscenici della lirica due figure di formidabile novità: Maria Callas (1923-1977) e appunto Renata Tebaldi (1922-2004).

Greca nata a New York la prima: dea, maga, sacerdotessa, cortigiana, tragédienne sortita dai miti più aspri e simbolici dell’antichità mediterranea; voce singolare e potente, attrice ed interprete di divorante carisma, fu forgiata da Luchino Visconti fino a divenir l’icona melodrammatica del suo “realismo storico” raffinato e tragico. Talora lei e Anna Magnani erano insieme a pranzo da Visconti, unite da affinità naturali ed elettive non agevolmente commensurabili. Vocalista esimia, la Callas fondò quella che verrà chiamata la “Belcanto renaissance”.

Italianissima l’altra, la Renata, originaria di Pesaro, ma parmense d’adozione: scoperta e forse chiamata per sempre “la voce d’angelo” da Arturo Toscanini, venne da lui presentata al mondo con il concerto per la riapertura della Scala (l’11 maggio 1946) e poi lanciata in un agone lirico ove presto quella ragazza s’affermò somma nel repertorio di Puccini e nel Verismo più intimista (Chénier), di certo Verdi (la sua Desdemona non ebbe eguali) e d’un Belcanto che andava dall’Assedio di Corinto alla Giovanna d’Arco, senza dimenticare un Wagner in italiano ove la sua Elsa e la sua Elisabetta furono vincenti su molte germaniche.

Grazie ad una voce che apparve subito fra le più sfarzose mai nate nella nostra penisola: un “fiume d’oro” (così Giulietta Simionato) che s’espandeva largo e opulento – senza “vuoti di bellezza” – in qualsiasi teatro e su qualsiasi strumentale, ricca d’armonici e di colori, dal rosso di Tiziano al biondo di Botticelli. Una fonazione perfetta, morbida e pura, le consentiva quei pianissimi che furono paragonati ai miracoli dei vetrai di Murano. Non v’è dubbio che il suo amato Puccini sembrava fluirle di bocca come un idioma da sempre parlato. Perché quel canto fatto di slanci dell’anima e di semplice conversazione ad arte fusi insieme, era quello che sortisce spontaneo dal parlare e dall’amare d’una “ragazza della porta accanto” come Mimì.

La semplicità delle piccole cose assumeva nella Tebaldi i metri e le forme della poesia e della pittura italiane tra Otto e Novecento, quelle di Pascoli, Gozzano, Fattori e Rosai. Con un incanto intimo e spontaneo assolutamente personale e inimitabile. Il richiamo alla Bergman è agevole nell’insieme, ma fu anche voluto, più che da lei, da chi aveva in mano le sorti della musica in quegli anni: e fra questi certo Francesco Siciliani. Basti pensare proprio a quella Giovanna d’Arco (di Victor Fleming) che di Ingrid già nel 1948 era stato un successo tale da collezionare Oscar e candidature. E che (opera d’un Verdi ancor giovane) Renata porterà prima a Napoli, poi in Italia, quindi a Parigi, ove il manifesto confezionatole dall’Opéra non mancava di richiamare quelli hollywoodiani per il film della Bergman.

La rivalità con la Callas fu nell’ordine naturale delle cose: ossia nelle aspettative d’un pubblico che – come per le due attrici – non vedeva l’ora di intravvederne gli scontri, le affermazioni taglienti, le tifoserie scatenate. Lo spazio teatrale italiano era al tempo certamente esiguo per l’una e per l’altra: sì che la Tebaldi partì per New York adorata dai tycoons e dalle ladies della “diamond gallery” del Metropolitan, regnandovi indiscussa per vari lustri; la Callas rimase alla Scala, sponsorizzata da una high society milanese, quella del Biffi e della prima Cederna, cui Toscanini e Visconti avevano dato i migliori ingressi possibili. Il tramonto si rivelerà drammatico per la Maria, solo venato di malinconia per la Renata.

Anni fa si disse che la Tebaldi è stata una di quelle personalità che chiudono un’epoca, mentre la Callas di quelle che ne aprono una nuova. In realtà furono entrambe a spalancar le porte al nuovo. Il cantar bello dell’una fu segnante almeno quanto il belcanto dell’altra. Le generazioni immediatamente successive presero entrambe a modello, assimilandone i pur diversi, ma eccezionali retaggi in modi che hanno fatto la storia dell’opera sino allo scadere del secolo. Il terzo millennio ha premeditatamente e orgogliosamente impiegato il suo primo ventennio a rinunciare a siffatte eredità: scoprendosi oggi  povero di mezzi e d’idee, d’arte e di cuore. Ciò che colei che fino all’ultimo voleva esser chiamata “la signorina Tebaldi” ebbe e donò con suprema generosità.

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