Di fronte all’emergenza sanitaria la ragione positivistica ha reagito con il dispiegamento di tutto il suo armamentario, cercando di tranquillizzare la popolazione. Ogni sera si ripetono, infatti, interventi di illustri scienziati pronti a illustrare strategie medico-sanitarie, alle quali fanno seguito istogrammi, curve, indici. Tra i dati presentati rientra il calcolo dei morti inferiore, decisamente, deo gratias, al numero dei guariti.
Ma questa pur comprensibile ripetizione giornaliera nasconde un fatto elementare e decisivo: chi muore. Chi muore non è un numero, ma un mondo, un volto, un io. E la sua morte e ciò che sfonda il calcolo: è il grido di un destino. Tale morte non dice genericamente che si muore o che l’uomo è heideggerianamente un essere-per-la morte, ma significa: io-posso-morire, o: tu-che-mi sei caro, puoi morire.
Per cogliere meglio la nudità di questa verità occultata, che ha una storia ben delineata da P. Ariès in Storia della morte in Occidente (Rizzoli), è necessario riprendere la lezione di Lev Šestov (1866-1938). Il filosofo di Kiev, studioso di Kierkegaard, Husserl, Nietzsche, Shakespeare, nel libro Sulla bilancia di Giobbe, pubblicato nel 1929 (tr. it., Adelphi), offre una lettura originale dell’opera dostoevskiana, privilegiando le Memorie del Sottosuolo.
Per Šestov la grandezza del protagonista del testo consiste nel suo riso omerico capace di scagliarsi contro le convenzioni, contro i calcoli, contro la potestas clavium di una ragione autosufficiente e sazia di sé. Solo chi ha visto veramente l’abisso spalancarsi sotto i suoi piedi, solo chi ha avuto la rivelazione della morte, la propria, ha occhi nuovi per guardare la vita. Lo sguardo nuovo è ciò che vince “l’universo comune a tutti” basato sull’astrazione, la misura, il generale, l’oggettivamente dato e scientificamente assicurato. Ma tale sguardo ha un punto di inizio: il lasciarsi colpire dal fatto che “non ci viene in mente che la morte sia un fenomeno naturale, non si pensa affatto al naturale, bensì all’innaturale, al soprannaturale. E come possiamo pensare che il naturale abbia più diritti, sia più potente del soprannaturale?”.
Dunque, l’avvento di ciò che è inesplicabile e inaspettato, cioè l’io-posso-morire, rappresenta non solo la vera critica alla/della ragione pura, ma in primis la fuoriuscita dal suo sonno. Un sonno indotto dalla “coscienza comune”, dall’“omnitudine”, dall’arroccamento in ciò che tutti pensano. Un sonno assicurato nella sua tranquillità dalla storia del pensiero: dal cartesianesimo, dallo spinozismo, dal positivismo.
Nell’ottica spinoziana, in particolare, vince la Necessità, capace di fagocitare il soggetto. Nel Grande Inquisitore di Dostoevskij si cela, perciò, Spinoza con il suo regno che mette da parte la libertà, ultimamente pericolosa. Ma tale castello di carte, inevitabilmente, vola via di fronte all’inaspettato, lasciando il soggetto senza difesa.
Alcuni preziosi testi di Tolstoj, a tal proposito, per il filosofo ammiratore di Tertulliano sono significativi: Memorie di un pazzo, La morte di Ivan Il’ic e Padrone e servo. Il compratore, Ivan Il’ic, Brechunov entrano a contatto con una dimensione che sconvolge la loro esistenza chiusa nell’ovvio, nello scontato, nel certum. Ciò che accade, all’improvviso, in modo imprevisto, cioè l’avvento della propria debolezza ultima, non può più essere ripreso nell’ottica del già dato e conosciuto, perché isola e fa tremare. Un’esperienza così drammatica e personale è un’evasione dal solido terreno comune a tutti, in cui v’è un proprio piccolo posto al sole.
Ognuno di questi straordinari personaggi si rende conto, finalmente, in modo misterioso e gratuito, di essere un’eccezione che sconvolge la regola, obbligando la legge del muro esistenziale-comunicativo, denunciata dal dostoevskiano uomo del sottosuolo, a crollare. Detto altrimenti, ognuno fa esperienza della propria irripetibile unicità, del proprio singolare destino, del proprio volto inconfondibile, volgendosi alla vera filosofia: a ciò che importa di più (Plotino). E ciò che importa di più per Šestov e anche per noi oggi è “cercare gemendo” (Pascal): una posizione da uomini.