“Ringrazio il professore per un’infinità di motivi: mi ha permesso di riflettere su alcune cose a cui non avevo mai pensato, o ancora meglio di ripensare a cose che mi sono capitate e non avevo mai giudicato, facendomi crescere. Avevo pensieri e aspettative che si sono tutte avverate alla fine di questa esperienza: ho ingrandito il mio cuore, imparando a coniugare il verbo amare, ho conosciuto meglio me stessa e tutti i miei compagni, compresi quelli dell’altra classe che ha letto insieme a noi Il giardino segreto. Ho ampliato il mio lessico e sono sbocciata anch’io come un fiorellino. Mi ha chiesto che cosa mi ha consegnato questo libro: ecco cosa mi ha consegnato, una nuova me stessa”.
Marta è una ragazza di prima media e legge queste sue righe durante l’ultimo degli incontri con il professore che è venuto da fuori a leggere con le classi il libro di Frances Hodgson Burnett. Il suo compagno Luca, seduto con gli altri quasi in cerchio nell’aula grande della scuola, dopo averla applaudita viene in mezzo al cerchio e legge: “Ho imparato un sacco di cose: siamo tutti diversi per carattere, personalità, aspetto fisico e sentimenti. E siamo come tante piantine che compongono un unico grande giardino: ognuno con il suo colore, ognuno con le sue parole. Ecco, io ho imparato anche delle parole nuove per dire quello che provo e so che tutti possono cambiare e fare del bene, come è successo a Mary”.
Anche lui si prende i suoi applausi, torna la suo posto e salta su dalla sedia Giulia che legge: “Questa esperienza, come la chiama il prof, mi ha dato lo slancio per raccontare i miei ricordi, le mie emozioni, le mie esperienze. Mi è sempre piaciuto scrivere, però trovavo difficile raccontarmi. Immaginate cosa ho provato quando il prof dettava le sue supertracce filosofiche e sentimentali. Questo corso mi ha dato del filo da torcere: ogni volta che dovevo scrivere, quasi mi arrabbiavo, perché quando faccio fatica a fare qualcosa mi saltano i nervi. Piano, piano però, leggendo il libro, o meglio ascoltando il prof leggere il libro, incontrando i personaggi ho capito: avevo paura a espandermi nei temi, attraverso il racconto delle emozioni, perché temevo sempre che qualcuno potesse dire: cosa c’entrano le tue emozioni? Invece oggi posso dire che Il giardino segreto mi ha consegnato il dono di raccontarmi. Anche perché davanti a me c’erano persone che mi ascoltavano, per le quali era importante quello che dicevo”.
E come loro Francesco, Giulia e Lisa le gemelle adorabili e terribili, e tutti gli altri, e Alessandro il giovane aiutante del nonno ortolano che un giorno ha scritto e ha letto in classe: “Sono felice quando mi prendo cura delle piantine del nonno. Come Mary, Colin e Dickon”. E ha confessato che la prima volta che si è messo a scrivere fu molto faticoso “perché ogni idea che mi veniva in mente mi sembrava un po’ stupida e avevo paura di non fare la cosa giusta. Ma con il passare del tempo ho capito che quello che ci veniva chiesto non era un compito, ma un’occasione per tirare fuori quello che provavo, le mie preoccupazioni, i miei desideri, raccontando come sono fatto e cosa mi piace fare e cosa mi fa paura”.
E proprio la gemella Giulia legge con il suo filo di voce: “Mary e Colin sbocciano insieme al giardino, che sembrava quasi morto ma è riuscito a rifiorire proprio come i protagonisti del libro che, prima di scoprire il giardino, erano soli e addirittura odiati da tutti”. E un’altra Marta racconta: “Il libro però non parla da solo. È stato lei professore ad averci consegnato tutto ciò che ai nostri occhi inesperti non era così evidente. Ci ha fatto ragionare sull’importanza di quello che abbiamo intorno e dentro il cuore e di cui a volte non ci rendiamo conto”.
Sono i bambini che hanno avuto quasi tre anni di scuola, tra elementari e medie, a distanza; che sono ancora lì con la mascherina a nascondersi dal virus cattivo ma anche dagli sguardi degli altri? Sì, sono loro. I ragazzi impauriti che vengono raccontati dalla televisione, che sono diventati un argomento di dibattito sociologico e psicologico, che la scuola fatica a comprendere. Che ci vogliono chissà quali progetti. E che invece rifioriscono dentro un libro. Presi sul serio dai professori che li accompagnano dentro un’esperienza di libertà e responsabilità. Presi sul serio dai loro compagni, sempre meno diffidenti, sempre più disposti a lasciarsi interrogare e a non nascondersi più. Ad accettare sé stessi e gli altri.
In questi giorni molti amici che hanno a cuore i giovani e il lavoro educativo, da Capasa a Rondoni a Prando, da queste pagine hanno lanciato una provocazione forte: chiudiamola questa scuola inutile, che non sa più parlare ai ragazzi, che non sa proporre senso e significato, che rimane arroccata a guardare il mondo che gira intorno e non ha più parole da dire, e asseconda le mode, rincorre le diverse agende europee, mondiali, culturali che non dicono mai, come dice Prando, cosa si debba fare concretamente, nella vita di ogni giorno, davanti alla classe che il destino ti ha affidato, dentro il sistema malato con cui devi combattere.
Hanno ragione quelli che è meglio chiuderla lì, questa farsa di scuola che sta in piedi tra avvocati, corsi sulla digitalizzazione, corsi contro il bullismo, formazione sull’inclusività, pronunciamenti a favore o contro le non cognitive skills e studenti intanto perduti dentro chissà quale mondo virtuale?
O ha ragione Frances Hodgson Burnett e Il suo giardino segreto? O hanno ragione i piccoli alunni di una prima media di una scuola brianzola che ringraziano perché qualcuno si è preso cura di loro dentro un libro? Bisogna avere il coraggio di guardarli negli occhi, di capire davvero che cosa è necessario per noi e per loro. Bisogna avere il coraggio di tornare a costruire una scuola viva. Di costruire, dentro la scuola, la scuola vera.
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