Mi manca Shulem Shtisel, patriarca della famiglia, preside della yeshivah in cui studiano i bambini della comunità chassidica degli haredim del quartiere di Geula. Shulem il burbero e apparentemente cinico, sempre intento a mangiare cetriolini sottaceto o sgombri direttamente dalla scatola a tutte le ore, ovunque ci sia un tavolo, compreso quello della sua presidenza.
Mi manca il fantasma della sua Dvorah, sempre presente nei suoi sogni e nei suoi ricordi; mi manca sua madre Malka e l’ospizio in cui, trasgredendo gli ordini del figlio, si ritrova a seguire Beautiful in tv: mancano la sua saggezza e la sua ironia.
Mi mancano Zvi Arye e Akive, il più irrisolto dei figli di Shulem: perdigiorno ma talentuoso pittore, incapace di tagliare il filo che lo lega al padre, inadatto a scegliersi una donna, e poi invece capace di trovarla e di perderla e ritrovarla dentro i volti diversi di Elisheva, Libbi, Racheli.
Mi manca Giti, rigida e feroce e determinata, e il suo Lippe Weiss, così inetto all’inizio, così sbagliato e amabile, che nonostante la sua fragilità decide di restare dentro la famiglia e la comunità; mi mancano i loro figli Ruchami e Yosa’le e tutti quelli che verranno, e il loro legame. Mi mancano tutti: Aliza, segretaria incompresa di Shulem; Nukhem, il fratello brutto di Shulem, padre di Libbi, sempre inguaiato e rincorso dai suoi creditori, infine perduto nello sguardo strabico di Nechama; mancano persino Menukha, la moglie del sensale che vuole prendersi Shulem senza riuscirci, e Hanina Tonik, che invece si prenderà Ruchami. Mancano tutti, così come mancano quei luoghi poveri in cui vivono: manca quella presidenza spoglia, manca la parete con la biblioteca in cui campeggia il librone sacro del Talmud, manca il balcone su cui Shulem e suo figlio Akive fumano le loro sigarette dentro dialoghi e silenzi che raramente il cinema e il romanzo di oggi sono in grado di scrivere.
Io li ho scoperti solo adesso gli Shtisel, ma dal 2018 sono arrivati su Netflix e sono diventati straordinariamente seguiti e apprezzati. E adesso che ho finito anche la terza e ultima stagione sto come quando si legge un libro importante e vivo: si arriva alla fine e ci si ritrova come quando se ne vanno via per sempre degli amici. Felici di avere vissuto con loro, ma tristi perché adesso non riempiranno più le nostre giornate o serate; con dentro una specie di gioia affogata in una nostalgia malinconica.
Eppure all’inizio tutto sembrava difficile: girata con mezzi poverissimi nel poverissimo quartiere di Geula, presentata in lingua originale ebraica e yiddish con sottotitoli in italiano, non è uno scherzo iniziare a vederla. Ma già dopo poche scene ci si rende conto di trovarsi dentro qualcosa di più grande che il semplice ritratto di una società lontana e curiosa; non si fa quasi più caso ai payot e ai cappelli improbabili degli uomini haredim, o ai vestiti e ai copricapo tristi delle donne. Dopo un po’ ci si rende conto che non si è di fronte a un trattato di antropologia culturale, a uno spaccato di vita molto particolare colto quasi dal buco della serratura, come qualcuno ha detto.
Ci troviamo invece davanti a qualcosa di così grande che mi ha fatto venire in mente Dostoevskij e persino Dante: il suono gutturale della lingua dei protagonisti, l’odore di muffa delle loro case, gli odori di aglio e cipolla delle loro cucine che quasi ti si attaccano addosso tanto è straordinario il racconto, non riescono ad allontanarti dallo schermo. Anzi: si rimane lì a vedere un affresco che non è più quello di una sparuta minoranza ultraortodossa della gente d’Israele, ma il disegno di una vicenda che è la commedia umana – di tutta l’umanità – raccontata con una pietas conosciuta soltanto dai grandi narratori.
Gli si vuole bene a questi testardi uomini di preghiera, le cui famiglie stanno in piedi perché ci sono donne che hanno braccia e caparbia volontà; gli si vuole bene nonostante all’inizio uno pensi che quello lì è un mondo diverso e non paragonabile al nostro. E invece fino all’ultimo dei trentatré episodi – una cantica, verrebbe da pensare – ci si accorge che questi personaggi sono in grado di mostrarci il nostro inferno e il nostro paradiso. Come Raskolnikov, come il principe Myškin, come l’Ulisse di Dante o gli eroi di Omero, questi personaggi immaginari sono così reali, da diventare figure ideali in cui possiamo specchiarci al di là delle differenze di religione, di cultura, di vita.
Il racconto ha il respiro ampio della vita; i dialoghi, le intonazioni e i silenzi sono magistrali; gli attori – nessuno dei quali è ebreo ortodosso – fanno meravigliosamente ciò che ci si aspetta da loro e sono in grado però di stupirci ogni volta.
Andatevi a vedere Shtisel, se non l’avete già visto. Per quanto mi riguarda – non so quanto rimangano le serie sulle piattaforme – spero che questa rimanga lì per sempre, come quei romanzi che hanno cambiato la nostra vita e ci teniamo nella nostra biblioteca o sul comodino. Così, come facciamo per quei romanzi, potremo tirare fuori di nuovo Shtisel quando ne avremo bisogno. Perché non siamo noi a leggere i grandi libri e le grandi storie come Shtisel: sono loro che ci leggono, ci guardano dentro e ci aiutano a capire chi siamo. Mazel tov.
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