Tutti gli appartenenti alla comunità della Columbia University, anche se si trovano all’estero, ricevono per posta elettronica dall’ufficio sicurezza del campus una breve comunicazione con tanto di fotografia dalla telecamera, quando essa è disponibile, ogni volta che un crimine è commesso nel campus o nei suoi immediati dintorni; e non solo quando esso coinvolga i membri della comunità, ma anche quando colpisca i vicini di Columbia. La muta eloquenza dell’immagine (“Chi l’ha visto?”) risparmia l’imbarazzo di indicare in parole chiare il genere e l’etnia del sospettato. Che nel 98 per cento dei casi è un uomo, e nel cento per cento dei casi ha la pelle di quel colore che non si menziona: per non “prestarsi alle strumentalizzazioni”, per non “incoraggiare le speculazioni politiche”, insomma per vivere “correttamente” le scaramucce esistenziali che sono parte della vita quotidiana a Manhattan e non solo.
Ma il messaggio ricevuto alcuni giorni or sono, e che ha come bucato lo schermo, è stato e resterà se Dio vuole eccezionale: una matricola diciottenne di Barnard (il college prevalentemente femminile che è parte integrante di Columbia) è stata pugnalata a morte durante un tentativo di rapina nel parco che si trova sul lato occidentale del campus.
Ora, la “buona notizia” (se si può usare questa espressione per un tale orrore) non è stata tanto la ovviamente rapida reazione della polizia, quanto il comportamento sensibile e attento dei dirigenti di Columbia: lettere aperte del rettore e di altre autorità, subito dopo la notizia, alla famiglia della ragazza e a tutta la comunità, disponibilità immediata di psichiatri e assistenti sociali per parlare agli studenti sconvolti; e si è ribadita più volte l’informazione, peraltro già ampiamente nota agli studenti, che è disponibile ogni giorno un servizio di navetta e di scorta perché essi raggiungano in sicurezza i loro domicili dopo le lezioni. Efficienza, dunque, e trasparenza. Ma a questo punto le buone notizie finiscono, e cominciano le questioni scomode.
Perché c’è bisogno di scorte, intorno a Columbia? E, che significano i due aggettivi mancanti: dopo il nome della studentessa e dopo il nome del sospettato? Si tratta di due calcolate lacune, opposte e complementari: se non si specifica nulla dopo il nome della ragazza, vuol dire che era bianca; e se del sospetto si dice soltanto “di sesso maschile”, vuol dire che non lo era, bianco.
Ecco che comincia il gioco dell’eufemismo e della diplomazia, ecco che la trasparenza si appanna. Non è che questi silenzi siano privi di giustificazioni: ma bisogna essere chiari su di essi, se si vuole veramente capire la situazione, al di là delle opposte retoriche di propaganda.
“Questo episodio demonizzerà l’immagine del parco”, dice una studentessa ai giornalisti che sono corsi al campus e che chiedono alle ragazze di Barnard impressioni a caldo. Verrebbe voglia di ribattere, un po’ cinicamente, che Morningside Park non aveva bisogno di questo episodio, per essere “demonizzato”: un tacito accordo generale insegnava ad evitarlo, specialmente verso il tramonto.
Ma, appunto, questa percezione non poteva essere espressa direttamente, in omaggio all’ideologia. E forse la giovane vittima dagli interessi artistici che già eseguiva piccoli concerti e che doveva essersi subito (come non capirla?) innamorata di Manhattan, non sapeva o non si era curata di sapere che poteva essere pericoloso, attraversare da sola un parco cittadino al bordo della sua università intorno alle cinque del pomeriggio. D’altra parte, la sua collega appena citata sulla “demonizzazione”, stava offrendo una bella e concreta testimonianza: faceva parte di un gruppo di volontari che aveva dato una ripulita a certe zone del parco, e insomma intendeva cambiarne la reputazione.
Simili sforzi non sono idealistici bensì realistici. Come il realismo di san Paolo quando (nella Prima Lettera ai Corinzi) esorta i fratelli: “aspettatevi gli uni gli altri”; che sembra un modo di dire: rispettate i diversi ritmi di sviluppo e crescita di persone differenti. Ma come è possibile ciò, senza una chiara critica interna a entrambe le comunità in questione? Altrimenti la costante ostilità sotterranea (mascherata dagli eufemismi) fra le due popolazioni che convivono nelle stesse città, l’ostilità che vibra ai margini dei luoghi della ricchezza e al tempo stesso della cultura dell’umano (a Columbia come a Yale come all’università di Chicago ecc.), finirà con l’avvelenare le acque di tutti i pozzi.
Pare che l’assassino e i suoi complici avessero soltanto cinque o sei anni in meno che l’assassinata; la quale dev’essere stata circondata da quello che a volte il gergo della stampa chiama “un branco”. Ma qui come in tutti gli altri casi non c’è nessun “branco”, qui non ci sono “animali” (come si borbotta qualche volta negli angoli bui): ci sono esseri umani, giovani o giovanissimi che siano, ai quali dev’essere riconosciuta anche la dignità dei loro terribili errori.
“Indicibile” (unspeakable) è il termine che ricorre nelle lettere addolorate delle autorità accademiche. L’unica reazione possibile di fronte a certi eventi sembrerebbe dunque essere quella più brutalmente corporea: “La mia compagna di camera sta vomitando in bagno”, dice senza fronzoli una delle intervistate alla quale era stato chiesto quanto la comunità fosse sconvolta dall’accaduto.
Unspeakable … A volte, di fronte a certi orrori, si sente una stanchezza della parola: che poi implica un’aridità, un’incapacità di commuoversi di fronte alla ripetizione della violenza da entrambe le parti. L’unica soluzione forse, per ritrovare un linguaggio che dica le cose, è concentrarsi per qualche attimo sui dettagli apparentemente “gratuiti” e marginali. Complimenti allora ai due cronisti del New York Times (Ed Shanahan e Matthew Sedacca) che, avendo colto al volo una frase apparentemente inane di una ragazza, non l’hanno censurata intellettualisticamente ma l’hanno citata: “Aveva i capelli verdi, e l’altro giorno in caffetteria le ho detto che i suoi capelli mi piacevano”. Resta l’immagine di un colore un po’ punk (come si sarebbe detto una volta), ma dolce: un colore del divertimento e dell’avidità della vita (e che importa che, se la ragazza avesse avuto il dono di vivere, l’avrebbe probabilmente cambiato dopo pochi mesi?). A volte, basta un dettaglio così per liberare quello che, nelle parole di Giorgio Caproni, si potrebbe chiamare “il seme del piangere”.