Può un istante divenire permanente? Può il tempo, in qualche misura, essere imbrigliato e reso testimone, nella sua circostanzialità, dell’eterno mutare delle cose? Dilemmi affascinanti ed ancestrali, che, a ben pensarci, stanno alla base di ogni riflessione artistica, sia essa visiva o scritturale. Quesiti che investono le fondamenta stesse delle nostre comunità, il loro modo di approcciarsi alla realtà e di rappresentarla nel suo inarrestabile cangiamento. E proprio su questo crinale il mondo del giornalismo è stato costretto ad interrogarsi: perché nell’era dei tweet che pungono ed evaporano in un battito di ciglia, delle notizie in tempo reale che schizzano in cima ai trend mondiali e si eclissano all’attenzione del grande pubblico nel giro di pochissimi minuti, che speranza di incisione, di lasciare una traccia indelebile, può avere un contenuto giornalistico? Si può rendere profondo e duraturo un concetto che sempre più si configura come effimero?



Sì, è possibile. Ma per farlo, è necessario seguire un’altra strada, battere orizzonti poco praticati, imparare a guardare più in là della superficie. Di questo affascinante tema si è dibattuto recentemente all’Università di Catania, in occasione dell’incontro “Letteratura, fotografia e giornalismo” facente parte dei lavori del secondo workshop internazionale “Il giornalismo che verrà” organizzato dal giornale Sicilian Post e dalla Fondazione Domenico Sanfilippo editore, all’interno del quale tre relatori diametralmente diversi tra loro hanno tentato di dare risposte in merito.



In questo singolare ménage, dunque, la scrittrice e giornalista Silvana Grasso, la vincitrice del Premio Campiello Giovani 2015 Eva Luna Mascolino e il maestro di fotografia conosciuto in tutto il mondo Giovanni Chiaramonte, introdotti e sollecitati dal presidente del comitato scientifico della Fondazione Dse Giuseppe Di Fazio, hanno espresso i loro pareri su come l’incontro tra arte e scrittura giornalistica possa essere la chiave per addentrarsi nel mistero della realtà e dei fatti che vi accadono.

“La mia è un’anima multiforme – esordisce la Mascolino, laureata a Trieste presso la Scuola per interpreti – in quanto mi trovo ad essere traduttrice, scrittrice e giornalista nello stesso momento. Tuttavia, il filo conduttore di queste attività è rappresentato dalla comunicazione: il giornalismo è innanzitutto ascolto, capacità di calarsi nei panni di qualcun altro. Grazie a questa mia attività – prosegue – e alla mia familiarità con le lingue ho compreso come ogni comunità plasmi la propria realtà in virtù dell’uso che fa delle parole, e del significato che a queste attribuisce”.



Tutto ruota attorno alla parola, al suo potenziale esplosivo, costruttivo, ma anche demistificatore, innovatore. Proprio questa declinazione nell’uso del linguaggio rende irripetibile ed insostituibile l’apporto che uno scrittore può offrire ponendosi di fronte alla sfida rappresentata da un giornale: “Non avevo affatto una vocazione giornalistica – confessa candidamente Silvana Grasso – né ero abituata a fruire questo genere di contenuti. Eppure sono finita dentro questo mondo, senza capire davvero il perché. Mi sentivo inadeguata, ma quando la direttiva di scrivere del mio caporedattore divenne categorica, capii che potevo varcare una soglia che non credevo potesse essere attraversata”.

Quella stessa soglia che oggi divide una notizia da un racconto, un evento nel suo semplice accadimento dalla storia che lo trasforma in possesso imperituro e questionante. Quella soglia che può essere intravista solo da chi, come l’artista, sa scorgere il cuore pulsante della vita e sa trasformarlo in memoria: “È la verità della condizione umana che permette la nascita della parola, della visione, della scrittura di un linguaggio, qualsiasi esso sia – illustra Chiaramonte – Tutti i media hanno la presunzione di utilizzare una lingua universalmente valida, ma sbagliano: nessun evento è mai uguale ad un altro. Una simile concezione finisce per azzerare, cancellare i fatti. Solo con la singolarità dell’esperienza si raggiunge l’universalità”.

Se la lingua tradizionale si rivela non più sufficiente, se il suo stanco perpetuarsi non consente più di incidere sulla realtà e di svelarne gli occultamenti che ne rivestono il senso autentico, di mettere il giornalista di fronte a domande ignorate o dimenticate, c’è bisogno di una nuova lingua, di una nuova consapevolezza fondata sul rilievo assunto dal coinvolgimento personale: “Scrivendo delle varianti di Medea o di Fedro, nel mio approdare al giornale – sottolinea la Grasso – ho mantenuto il patrimonio che avevo acquisito con la letteratura. L’importante è rimanere clandestini a bordo: infatti, non ho rinunciato ai miei linguaggi, ma li ho fatti transitare in quelli giornalistici. Ho scavato con le mani nel mio passato, creando un modo di comunicare che ha educato moltissimi lettori”.

La scrittura, perciò, non è soltanto un veicolo informativo, ma una vera e propria creazione, una genesi che si rinnova di volta in volta. Un modo per sentirci uniti sulla base del nostro comune essere fragili: “Ciò che ci rende uomini – afferma il maestro Chiaramonte – è il silenzio. E questo silenzio, che attraverso i pensieri riempie drammaticamente il nostro essere, va riversato su qualcosa che ci liberi dalla sua oppressione e ci renda disposti alla comprensione, alla ricerca di qualcosa. Ognuno di noi – chiosa – cerca un linguaggio proprio: l’autentica narrazione nasce dalla profondità di chi guarda e da quella di chi viene guardato. Tutto sta nel coraggio di trovare sempre le parole nuove che la realtà ci offre”.

Nuovo linguaggio per una nuova realtà, fatta di intuizione, di soggetti che sappiano percepirla non come scontata evidenza da liquidare nello spazio di un mattino, ma come il luogo delle domande senza fine, del coraggio di guadagnarsi ogni giorno parole vergini, conoscenze sorprendenti da trasmettere, con emozione, ad altri. E forse, aprendoci all’appello della realtà, facendo nostri gli strumenti che la descrivano nel suo metterci costantemente in discussione, come dice la Mascolino, “potremo dare voce a chi non ce l’ha, lanciare messaggi di rilievo. Perché spesso non è importante chi racconta una storia, ma come lo si fa, e come si raccontano le persone”.