“All’idea del dovere l’uomo non può sottrarsi. Il dovere è attaccato inevitabilmente al nostro essere, ce n’avverte la coscienza fin da quando cominciamo appena ad avere uso di ragione”. Una visione totalmente diversa dalla martellante grancassa ideologica che oggi insiste in modo ossessivo solo sui “diritti”. È questa la lezione di Silvio Pellico, di cui in questo 2022 ricorrono i 200 anni dall’inizio della sua prigionia allo Spielberg.
Nato a Saluzzo (Cuneo) meno di tre settimane prima della presa della Bastiglia, che accese la miccia della Rivoluzione francese, e morto a Torino lo stesso anno della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione da parte di Pio IX, lo scrittore e poeta Silvio Pellico (1789-1854), noto per essere l’autore del libro di memorie Le mie prigioni, nella sua esistenza ebbe due fari: un appassionato amor di patria e una fede viva e ardente. Al punto che nella sua vita e nelle sue opere l’anelito all’unità d’Italia era strettamente legato alla difesa dell’identità cattolica, contrariamente al progetto risorgimentale di stampo massonico e anticlericale che poi si impose.
Il 13 ottobre 1820 viene arrestato con l’accusa di appartenere alla carboneria: la condanna a morte venne commutata in 15 anni di carcere duro nella fortezza austriaca dello Spielberg, in Moravia (oggi Repubblica Ceca), in cui entrò a fine marzo 1822. Non scontò l’intera pena, perché nel 1830 arrivò la grazia imperiale. Tornato in Italia, si stabilì a Torino, abbandonando la politica attiva e la frequentazione dei circoli letterari e sostenendosi grazie a un posto di bibliotecario presso i marchesi di Barolo.
Nella sua opera più celebre, Le mie prigioni, del 1832, non ci sono soltanto la descrizione del suo arresto, della vita in carcere e del ritorno alla libertà: Pellico si sofferma anche sul percorso spirituale da lui compiuto, grazie anche all’incontro con il vicino di cella, il conte Antonio Fortunato Oroboni, i cui effetti furono la riscoperta della fede e uno sguardo misericordioso verso l’esistenza e gli altri uomini.
Sia negli anni di prigionia che in quelli successivi compose diverse tragedie e liriche, ma scrisse pure una sorta di “manuale di consigli” per la gioventù del suo tempo, Dei doveri degli uomini. Discorso ad un giovane, pubblicato a sue spese nel 1834, un libretto agile e accessibile e ricco di riferimenti culturali, che ebbe all’epoca, e fino agli albori del XX secolo, un notevole successo, per poi essere dimenticato. L’editore Fede & Cultura di Verona, dopo una prima uscita nel 2011, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, lo ripubblica ora con il titolo leggermente modificato, I doveri degli uomini, e il sottotitolo “Quale eredità per le nuove generazioni?”, a sottolineare il fatto che ha ancora qualcosa da insegnarci.
L’autore ammette di non aver voluto scrivere “un trattato scientifico”, ma più semplicemente “una pura enumerazione de’ doveri che l’uomo incontra nella sua vita” e “un invito a porvi mente, ed a seguirli con generosa costanza”. Una riflessione che ha un destinatario preciso. “Gioventù della mia patria”, esorta, “offro a te questo piccolo volume, con desiderio intenso che ti sia stimolo a virtù, e cooperi a renderti felice”. Una felicità che coincide con l’amore alla verità, che è poi il riconoscere di essere creature, dipendenti da un Altro che ci costituisce. L’uomo “è fatto ad immagine di Dio”, scrive il reduce dello Spielberg, e “suo dovere e sua felicità sono d’essere quest’immagine, di non voler essere altra cosa, di voler essere buono perché Dio è buono, e gli ha dato per destinazione d’innalzarsi a tutte le virtù e diventare uno con Lui”.
Il libro è uno scrigno di perle preziose: consigli, suggerimenti, esortazioni per la vita personale e familiare, come per la vita sociale e comunitaria. Pellico, oltre che l’attaccamento alla patria, sottolinea il valore della religione, l’importanza della carità, la stima per l’essere umano, l’amore filiale, l’amore fraterno, l’amicizia, l’onore alla donna. E poi, ancora, l’apprezzamento per il il sapere, la gentilezza, la gratitudine, l’umiltà, il perdono.
L’aspetto che più colpisce è l’incredibile attualità delle sue osservazioni. In un’epoca, la prima metà del XIX secolo, in fondo non molto dissimile dalla nostra, lontana da Dio e avvitata su se stessa, risuona forte il richiamo a dare “arditamente bando allo scetticismo, al cinismo, a tutte le filosofie degradanti”. Dobbiamo invece imporci “di credere al vero, al bello, al buono”. Soprattutto, “la coscienza dell’uomo non ha riposo se non nella verità”, perché “i tempi più corrotti sono quelli in cui più si mente”. A braccetto con la menzogna c’è l’abitudine – quanto ancor oggi diffusa! – di colpire i rivali inventando accuse inesistenti, mettendoli in cattiva luce per sconfiggerli. L’esito è “la diffidenza generale […] fino tra padre e figlio”, poi “l’intemperante moltiplicazione delle proteste” e nelle dispute “un continuo stimolo ad inventar fatti ed intenzioni denigranti contro l’altra parte”, con “la persuasione che sia lecito deprimere in qualunque modo gli avversari”. Da qui “la smania di cercare testimonianze contro altrui, e trovatene di tali la cui leggerezza e falsità è manifesta, l’impegnarsi a sostenerle, a magnificarle, a fingere di crederle valevoli”. Non è forse il teatrino della politica (e non solo) cui assistiamo ogni giorno?
Quello indicato dall’intellettuale piemontese può apparire un cammino difficile, per pochi, ma ce la faremo se “scorgeremo in ciascun dovere una misteriosa bellezza che c’inviterà ad amarlo”, se “sentiremo una potenza mirabile che aumenterà le nostre forze, a misura che ascenderemo nell’ardua via della virtù”, se “troveremo che l’uomo è assai dappiù di quel che sembra essere, purché voglia”.
Bellissimo e accorato l’appello finale: “Ama la vita; ma amala non per volgari piaceri e per misere ambizioni. Amala per ciò che ha d’importante, di grande, di divino! Amala, perché è palestra del merito, cara all’Onnipotente, gloriosa a lui, gloriosa e necessaria a noi! Amala ad onta de’ suoi dolori, ed anzi pe’ suoi dolori, giacché son essi che la nobilitano! essi che fanno germogliare, crescere e fecondare nello spirito dell’uomo i generosi pensieri e le generose volontà!”. Infatti “questa vita cui tanta stima tu devi, sii memore esserti data per breve tempo. Non dissiparla in soverchi divertimenti. Concedi soltanto all’allegria ciò che vuolsi per la tua salute e pel conforto altrui. O piuttosto l’allegria sia da te posta in principal guisa nell’operare degnamente; cioè nel servire con magnanima fratellanza a’ tuoi simili, nel servire con filiale amore ed obbedienza a Dio”.
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