Il protagonista de La prigione, ultimo Simenon edito da Adelphi, Alain Poitaud, è un uomo di successo: a dispetto del suo tonfo scolastico (bocciato alla maturità francese, il temibile Baccalauréat), Alain Poitaud non si è scoraggiato; lo ha sempre saputo di non essere fatto per una vita ordinata e regolare come quella del padre, dentista da quarant’anni, da sempre inchiodato al suo studio, inchiavardato alla routine dei suoi pazienti – invariabilmente uno ogni venti minuti –, per dodici o quattordici ore al giorno, a trafficare su denti cariati”. Alain Poitaud prima si è arruolato, poi è tornato a Parigi, ha collaborato a vari giornali, ha scritto canzoni; infine ha fondato una rivista, Toi, che, l’ha reso ricco e consacrato come una delle personalità più in vista dell’ambiente giornalistico di Parigi.



Alain è sempre circondato da amici, collaboratori, dipendenti, segretarie e centraliniste adoranti (tutte invariabilmente ribattezzate, queste ultime, “cocca”): una “combriccola”, così la chiama, con cui passa serate, e nottate, chiassose e alcoliche nei locali alla moda di Parigi. E accanto a lui c’è sempre la moglie, giornalista specializzata in interviste a personaggi celebri, da lui soprannominata “Micetta”. E proprio come una gattina, Jacqueline, così si chiama la moglie di Poitaud, è sempre a fianco del marito, senza mai, apparentemente, pretendere nulla, gelosa della sua autonomia lavorativa  (giornalista free-lance, non ha mai voluto lavorare nel giornale del marito, perché “non si viene prese sul serio se si è la moglie del capo”, così ha sempre detto), silenziosa e certo consapevole delle mille avventure da una notte di Alain e di tutte le donne con cui egli intrattiene rapporti nemmeno tanto segreti.



Alain, del resto, si è “sempre mostrato cinico, fin dall’infanzia, fin dalle superiori, quando aveva già la sua combriccola, e quando era stato bocciato alla maturità aveva ostentato un certo compiacimento: “Sono gli stupidi a diplomarsi”. Da sempre, a sua madre Alain ha ripetuto che “esistono due tipologie di persone: quelli che le danno e quelli che le prendono”, aggiungendo pi, con aria di sfida: “Io ho intenzione di darle”.

Date queste premesse, Alain rifiuta di condurre “un’esistenza da schiavo”, come il padre o come il nonno paterno, medico di campagna, o come il nonno materno, pasticciere, “che per tutta la vita aveva sfornato dolciumi in una stanzetta surriscaldata dal soffitto basso mentre sua moglie si dava da fare dietro un bancone”. Insomma, Poitaud è quel che si dice un uomo arrivato. Eppure, o forse proprio per questo, a un certo punto gli rovina addosso un evento destinato a sconvolgergli l’esistenza: la moglie, Micetta, ha sparato alla propria sorella minore, Adrienne, e l’ha uccisa, restando, per giunta, per qualche minuto, a osservare la sua agonia. Ma c’è anche un torbido retroscena: Adrienne, detta Bimba, è stata per molti anni l’amante di Alain. La cosa era cominciata quando, un pomeriggio, sul tardi, l’uomo era tornato a casa e non aveva trovato Micetta – occupata al George V in un’intervista a un famoso scrittore americano –, ma solo Bimba. I due continueranno per molti anni, anche dopo il matrimonio di Adrienne con un banchiere, a incontrarsi segretamente. Micetta può dunque aver agito perché accecata dall’ira e dalla gelosia nei confronti della sorella? Ma Alain e Adrienne avevano deciso di interrompere i loro incontri clandestini mesi prima: può davvero essersi trattato di una vendetta o scoppio ritardato? Oppure, come arriva a insinuare il commissario che indaga sul caso, potrebbe essere che le due sorelle si contendessero un altro uomo, un uomo misterioso che aveva fatto perdere a entrambe la testa, sino al punto da spingere Micetta a quello che un tempo si chiamava crime passionnel, un delitto passionale?



Tutto è possibile, e Alain, da sempre così sicuro di sé, così incapace di sondare e capire davvero l’animo di chi lo circonda, comincia a vedere la moglie e la sua stessa vita sotto un’ottica differente: il contegno di Jacqueline, calma, tranquilla, imperturbabile e padrona di sé, e trincerata dietro un silenzio marmoreo e sconvolgente, lo riempie di stupore, oltre a preoccupare il difensore, il grande penalista Rabut. Già, perché, se si trattasse della vendetta di una giovane donna che ha scoperto di essere tradita non solo dal marito, ma anche da sua sorella, le cose sarebbero semplici: e aiuterebbe molto, del resto, se Micetta, per impressionare la giuria, piangesse, strepitasse, si lasciasse andare a un contegno da moglie tradita e oltraggiata, obnubilata dalla gelosia.

Ma la situazione è invece tale che Alain inizia a vacillare: le fondamenta stesse della sua vita disordinatamente ordinata, affollata di cose, persone, incontri, attività, nella quale, programmaticamente, egli non è mai solo, mai concentrato su se stesso, sono prossime al crollo. Persino la casa di campagna, Les Nonnettes, il buen retiro che Alain e Micetta hanno scelto e arredato, dove si rifugiano nel fine settimana e dove vive permanentemente Patrick, il loro bimbo di cinque anni, persino quella casa di campagna gli appare ora per quello che è: un teatrino, uno scenario fasullo, la perfetta rappresentazione di come, nella fantasia dei parigini dalla vita convulsa, deve essere una casetta immersa nella placidità della campagna. “Patrick stava meglio con Mamie, come la chiamava lui, e con la coppia di vecchi. Non si rendeva conto che Les Nonnettes era una mistificazione, un sogno non realizzato. Avrebbe ereditato una bella somma. Il milione di lettori e di lettrici, soprattutto lettrici, avevano fatto di Alain un uomo ricco”.

Ma ora Alain lo capisce: la sua vita è stata dominata dalla paura: “e adesso anche Micetta lo sapeva, lo sapevano tutti”. “Con un’altra donna sarebbe successo esattamente lo stesso. Avrebbe chiamato anche lei Micetta, o con un qualsiasi altro nomignolo, come cocco, bello mio e compagnia”. E quando un uomo ammette di vivere nella paura, e nella mistificazione, non può più continuare come se niente fosse.

Bello e terribile, La prigione si conclude come invariabilmente accade nei romanzi di Simenon, che presentano un personaggio in bilico, nel momento in chi squarcia “il velo di Maya”, per prendere coscienza della labilità e dell’impostura della vita.

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