Questa volta la nuova ristampa simenoniana edita da Adelphi, Il sospettato, ci porta nell’ambiente degli anarchici e dei sovversivi. Protagonista è il mite Chave, che vive a Bruxelles con la moglie e il figlio, arrabattandosi, per sbarcare il lunario, in un teatro, come comparsa e direttore di palcoscenico. Ma Chave è anche un leader di un’organizzazione anarchica, un punto di riferimento, che con i suoi scritti ispirati ha saputo infondere entusiasmo e motivare i suoi compagni di lotta.
Con il personaggio di Chave, protagonista di questo romanzo scritto nel 1937, Georges Simenon ha arricchito la sua galleria umana con un’ennesima variazione sulla tipologia del reietto: Chave, infatti, è nato da una famiglia borghese, suo padre era capo contabile in una fabbrica, ma ha lasciato tutto e tutti da quando si è avvicinato ai circoli anarchici e poi, interrotto il servizio militare, ha varcato la frontiera con la Francia ed è fuggito in Belgio con la sua ragazza Marie.
Il Belgio, terra natale di Simenon, ritorna varie volte nei suoi romanzi: nel Sospettato, è il luogo dal quale il protagonista fugge, per tornare in Francia: nonostante rischi grosso, perché non avendo concluso il servizio militare, Chave, di fatto, è un disertore, egli si espone a questo pericolo perché ha saputo che alcuni membri della sua cellula anarchica sono intenzionati a compiere un attentato: un gesto forte, non solo dimostrativo, con una bomba che farà decine di vittime in una fabbrica.
Lasciando la moglie e il figlioletto Pierrot, senza sapere se mai li potrà rivedere, se mai potrà tornare indietro, Chave si lancia in un’impresa che sente come un imperativo morale, ma che è anche una lotta contro il tempo. Infatti, bisogna innanzitutto capire chi posizionerà la bomba: come scoprirà Chave, si tratta di Robert, fattorino franco-polacco, figura tragica, dalla vita sfortunata, e anzi sventurata, ma che, a differenza di Chave, non prova repulsione per l’idea della violenza.
Simenon sa ricreare con due parole l’atmosfera sottilmente depressiva dei treni notturni, quella triste e claustrofobica degli alberghetti, dei localini con il bancone di zinco, delle sistemazioni di fortuna, degli angoli di città popolati dall’umanità sfortunata ed emarginata in cui si muove Chave. Ben presto, egli si renderà conto di avere sempre avuto la bomba sotto gli occhi, e compirà il gesto che sente più giusto, che i membri del suo gruppo anarchico sconfesseranno, ma che questo mite anarchico non può esimersi dal compiere: gettare la bomba nella Senna.
E il premio, per questa sua azione, poi, starà nel ritorno a quella sua umile quotidianità, alla sua casa, alla sua famiglia, al suo bambino, che non sono, come aveva sempre pensato, la copertura della sua vera attività, il complemento e il riempitivo della sua esistenza; essi sono, invece, la sua vera vita, il luogo cui ambisce tornare e di cui comprende l’importanza solo nei quattro giorni disperati raccontati nel romanzo,
Così, infatti, conclude il racconto Simenon, descrivendo l’atmosfera che si crea fra Marie e Chave al ritorno del marito: “Continuarono a parlarsi, da una stanza all’altra, con le frasi interrotte dai rumori, quello delle pentole che venivano spostate e del fuoco che veniva attizzato. (…) E così via, con calma, con prudenza, perché era tutto così fragile e non volevano rompere nulla”.