I romanzi di Simenon presentano spesso la situazione-tipo dell’uomo onesto, probo, rispettoso delle leggi scritte e non scritte, del buon cittadino, insomma, buon padre e buon marito, membro attivo della società, che, dopo un’esistenza passata dentro le regole, improvvisamente, si rende conto dell’inanità dello schema in cui ha condotto la sua vita. Il punto di rottura arriva così, improvvisamente, quasi illogicamente, se si guarda la vicenda dall’esterno; ma è il protagonista, spesso in un monologo, in un soliloquio che ci fa sprofondare nell’angoscia e in una sensazione vischiosa di disagio, a mettere in scena le ragioni del suo agire.
Tale è La mano (Adelphi 2021), in cui la voce narrante, Donald, onesto avvocato quarantacinquenne, con una buona posizione, una bella casa, una bella famiglia, una moglie di buona famiglia (addirittura discendente da una delle famiglie che sbarcarono dal Mayflower, dunque la crème della buona società del New England), elegante, misurata, garbata, e comprensiva, anzi “che tutto comprende”, racconta il progressivo sgretolamento della sua vita.
Tutto inizia in una serata di metà gennaio, quando Donald è invitato all’annuale party di Mr. Ashbridge, un pezzo grosso, ricco affarista con le mani in pasta in oltre una cinquantina di imprese e aziende; in auto, insieme a Donald e Isabel, viaggiano anche Ray, amico di Donald dai tempi dell’università, e sua moglie Mona. Le due coppie sono speculari: tanto Donald e Isabel rappresentano la rispettabilità, la solidità borghese di chi vive con successo entro le regole, quanto Ray e Mona rappresentano l’eccentricità, financo l’esotismo, almeno agli occhi di Donald, che fantastica sulla carnagione dorata e i capelli bruni di Mona, così diversa dalla sua compostissima moglie. Quanto a Ray, non è mai riuscito a diventare, come invece ha fatto Donald, un giurista serio, un avvocato stimato; dopo l’università si è impiegato in una agenzia di pubblicità e, con il suo spirito avventuroso e un po’ corsaro, è riuscito ad accumulare una ricchezza consistente, a diventare socio della ditta, a farsi un nome in un campo ancora pionieristico e che offre tante possibilità, posto che si sappia osare.
Nel corso della festa, durante la quale scorrono fiumi di alcolici di tutti i tipi, Donald entra in un bagno, in cui scopre Ray allacciato a Patricia, la moglie di Ashbridge. Sembra che si tratti soltanto di un momento di imbarazzo: in fondo, Ray è sempre stato il miglior amico di Donald, no?
Al ritorno dalla festa, però, la neve che già cadeva copiosa si trasforma nella bufera più violenta degli ultimi settant’anni: impossibile arrivare sino a casa in auto. Le due coppie scendono e procedono a piedi per le ultime centinaia di metri che separano il punto in cui la macchina si è fermata dalla casa di Donald e Isabel: la bufera infuria, non si vede a un palmo dal proprio naso, e le due donne procedono a braccetto; non così Donald e Ray: infatti, una volta arrivati a casa, ci si rende conto che quest’ultimo si è perso nella neve. Donald esce dunque a cercarlo… ma, invece di avventurarsi nella tormenta, si rifugia nel vecchio fienile riadattato a rimessa, e si siede sulla panchina verniciata di rosso, fumando sigaretta dopo sigaretta.
Si tratta di un omicidio, ancorché per omissione di soccorso, e Donald lo sa benissimo: perché, come realizza, lui, Donald, odia Ray, che è l’immagine di quella disinvoltura, di quella durezza, di quella capacità di farsi beffa delle regole che Donald non ha mai avuto: Ray, come Ashbridge, è un uomo tosto, di quelli che sanno farsi rispettare in ogni occasione, che si sanno imporre, che prendono quello che vogliono senza curarsi della opinione dei benpensanti.
E così, rientrato in casa, Donald dirà di essere andato, ma inutilmente, in cerca di Ray, e lo dirà sotto gli occhi impassibilmente azzurri della moglie. Per due giorni, mentre si attende che le strade vengano sgombrate, l’elettricità ritorni e le linee telefoniche riattivate, Mona resta a casa di Donald e Isabel; e non si dimostra certo una vedova afflitta, che si strappa i capelli, anzi: Ray era un buon compagno, lo ammette, ma la sua perdita non la lascia nella disperazione.
Parimenti, cresce l’ossessione di Donald per lei, a partire dalla mano di lei (ecco il motivo del titolo), abbandonata sul parquet fra i materassi che, per dormire, essendo bloccata la caldaia, Isabel dispone davanti al camino, assegnando al marito il posto centrale fra le due donne. E quando verrà finalmente scoperto il cadavere di Ray, morto assiderato nella piccola scarpata dietro la casa di Donald, Isabel, che tutto vede e tutto capisce, farà sparire i mozziconi di sigaretta dal pavimento del fienile, la prova che inchioderebbe il marito. Marito che si occupa della successione di Ray, con frequenti visite a Mona, a New York, a casa di Mona. Da lì in poi, inizia la caduta libera di Donald, che capisce di avere vissuto sempre in un mondo di cartapesta.
Isabel? Con i suoi occhi che lo scrutano, sempre senza una parola, con l’atteggiamento di chi sa sempre tutto, di chi controlla e supervisiona, si comporta né più né meno che come sua madre, quando Donald era bambino.
Il padre? Chiuso nel suo piccolo mondo asfittico e morente, di cui è emblema il vecchio quotidiano locale, ormai agonizzante, storica impresa di famiglia, non capisce nulla di quel che si agita nella testa del figlio, e certo si intendeva meglio con il fratello di Donald, Stuart, morto in guerra.
Le figlie? Sono delle estranee: per la maggiore, Mildred, ormai contano molto di più le compagne di collegio e in particolare il fratello ventenne di una di queste; la minore, Cecilia, ha una vita interiore che a Donald sfugge completamente. E quando Mona comunica a Donald che si sta per risposare, la tragedia incombe, e non tarderà a verificarsi.
La mano è il resoconto della discesa agli inferi, gradino dopo gradino, di un uomo, che esce dalla gabbia della normalità per assaporare quella che ritiene la vera libertà: un romanzo così crudele e così spietato che persino Simenon si dichiarò colpito e intimidito dalla storia che aveva saputo creare.
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