Ennesima variazione, cinica e crudele come sempre, sui temi della famiglia e del rapporto con il femminile, La fattoria del coup de vague (Adelphi, 2021) mette in scena un gruppo di famiglia in un interno votato alla tragedia; ma una tragedia borghese, di quelle che si consumano senza grida, fra bisbigli educati.
La storia si dipana in una piccola cittadina vicina a La Rochelle; qui, insieme alle zie Hortense ed Émilie, vive Jean: alto, bello, prestante, con gli occhi blu e i capelli neri, fa immancabilmente girare la testa a tutte le ragazze del luogo. Jean non ha mai conosciuto i genitori: la madre è morta di parto, e il padre, poco dopo la nascita del figlio, è partito per il Gabon, da cui non ha più fatto ritorno.
Il giovane, cresciuto con le zie, è sempre stato accudito e coccolato in ogni cosa, con una premura che sfocia nella tirannia domestica; ma di essere tiranneggiato, in verità, Jean si renderà conto solo dopo il suo matrimonio: le zie provvedono infatti a tutto, prevedono tutto, sistemano tutto. Per esempio, pur di tenersi vicino il nipote (che vorrebbe entrare in aviazione), riescono a farlo riformare, con il ridicolo risultato che ragazzi fragilini e debolucci partono per la caserma, mentre Jean, un ragazzone di un metro e ottantadue con centodieci centimetri di torace, viene dichiarato inabile. Ma il peggio arriva quando Marthe, la figlia dell’ex sindaco Sarlat, una delle tante ragazze che Jean si è portato nel boschetto dove tutti i paesani hanno amoreggiato e amoreggiano, gli comunica di essere incinta. Marthe è stata una delle molte ragazze che si sono lasciate soggiogare dai begli occhi blu di Jean. Non è la più bella, no: “Tutto sommato, a sedurlo era stato più che altro il suo profumo. Lei era carina, ma non in modo eclatante. Le piacevano i ragazzi ed era allegra, più allegra e più intraprendente delle altre”.
A questo punto, le ineffabili zie intervengono a gestire la faccenda, perché, in fondo, Marthe lo capisce benissimo che Jean è disposto sì a sposarla, ma senza entusiasmo né amore: e allora, basta conoscere la gente giusta, e pagare. Ma qualcosa va storto, e Sarlat si impone, per cui i due ragazzi si sposano. Marthe viene a vivere nella casa dove è cresciuto il marito, e le zie, le care, efficienti zie, si occupano di tutto, anche delle cure alla ragazza, che, già debole e malaticcia di suo, non ha retto il colpo della maldestra operazione. In Jean inizia a montare allora uno strano disagio: “All’improvviso, Jean si sorprese a pensare che anche sua zia era una donna, che sotto quel carapace di vestiti si nascondeva un corpo femminile. E quel giorno la femminilità suscitava in lui un miscuglio di compassione e disgusto”.
Ben presto l’armonia in cui Jean crede di vivere si spezza, o, per meglio dire, il giovane si rende conto che le cose non sono come ha sempre creduto. Per prima cosa, Marthe dovrebbe sottoporsi a un’operazione, rischiosa e dagli esiti dubbi, ma se riuscisse, accelererebbe la sua ripresa fisica; le zie premono perché si decida in tal senso, e anche la giovane pare propensa a questa scelta. Non solo: al momento di preparare i documenti per il matrimonio, sorge una difficoltà, perché il fratello di Hortense ed Émilie è emigrato in Gabon tre anni prima della nascita di Jean. E poi, da una battuta casuale di un vecchio contadino ingaggiato per la trebbiatura, rimproverato dalla zia Hortense per una storiella volgare raccontata a tavola, emerge una verità sconvolgente: non c’è stata nessuna giovane madre morta di parto, nessun padre partito per l’Africa; Jean è figlio illegittimo, figlio di una delle due zie. Ma di quale? Di Hortense, forte come un uomo e dalla figura imponente come una torre, o di Émilie, “sempre vestita di nero, sempre in ordine e con un sorriso soave sulle labbra”, che “camminava a passi così leggeri che te la trovavi davanti all’improvviso e parlava in tono monocorde”?
Il ritratto terribile delle zie, soprattutto di Émilie, fa affiorare nel lettore ricordi di altre figure di madri e di rispettabilissime signore e signorine di mezza età capaci di azioni indicibili e dure come il ferro: dalla madre di famiglia de Il grande male, alla madre di Simenon stesso, cui egli dedicò una Lettera alla madre che è un pugno nello stomaco pari alla Lettera al padre di Kafka.
C’è tanto sole in questo romanzo ambientato in riva al mare; ma è il mare poco allegro di chi non lo vive come un luogo di villeggiatura spensierata, ma come un luogo di vita e di lavoro (i vivai e la vendita di ostriche e mitili); e al biancore accecante delle giornate estive corrisponde il buio in cui sprofonda Jean, quando inizia a capire la realtà in cui è stato immerso per anni senza mai comprenderla davvero. Ma è poi così necessario prendere una posizione autonoma, opporsi, cercare da soli il proprio posto nel mondo? No, meglio di no. In fondo, “le zie provvedevano a tutto. Non aveva bisogno di pensare. Meglio non pensare”, e accomodarsi in una realtà in cui tutto è già deciso, programmato, predisposto, in cui Jean potrà, dopo la breve parentesi matrimoniale, continuare la vita da scapolone impenitente, accudito dalle due ineffabili zie.
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