Il dottor Édouard Malempin è un uomo che ha raggiunto una posizione invidiabile, solidamente borghese: ha un lavoro rispettabile e una bella famiglia, una moglie con cui va d’accordo e due figli. Mentre veglia il suo secondogenito, colpito da una forma particolarmente grave di difterite, però, Malempin ripensa al suo passato, nel quale si annidano ricordi forse angosciosi, ma che, di certo, celano un mistero nero, nerissimo.



Malempin, di Georges Simenon, uscito per la prima volta nel 1940 (Adelphi, 2024), è la perfetta dimostrazione di quello che André Gide aveva identificato come l’essenza del “metodo Simenon”: far rivivere il passato attraverso il presente. E Malempin è appunto costruito con una sorta di montaggio alternato, che ci trasporta ora nell’atmosfera tesa, densa di preoccupazione della casa di Malempin, e ora nell’asfittica fattoria dove Édouard è cresciuto. Una fattoria che era, sì, la più grande e forse la più imponente di tutto il circondario, ma nella quale regnava un clima tetro, imposto e dettato dalla madre di Malempin. Ella, nata in una grande famiglia finita in povertà, dopo aver faticosamente (e solo parzialmente) riguadagnato il suo status, ha fatto crescere i figli nel mito dell’austerità e del decoro, tanto che solo ora che è adulto, Malempin realizza che sua madre doveva pure andare nella stalla a mungere le vacche, e forse calzava anche gli zoccoli, come tutte le altre contadine: ma lui non solo non l’ha mai vista in quella veste, nemmeno gli riesce di immaginarla così.



Le domeniche, poi, erano scandite dalle visite in città, allo zio Tesson: o meglio, al prozio di Édouard, avvocato che aveva smesso di esercitare la professione forense quando il nonno di Malempin, suo fratello, da notaio benestante si era trovato, dopo affari azzardati, ridotto in povertà. In quella situazione, però, Tesson continuò a gestire affari come sensale, e, forse, anche prestando denaro in modo non particolarmente limpido.

Lo zio Tesson viene definito da monsieur Malempin, che non lo può soffrire, come “un vecchio satiro che odora di caprone” (per essere un contadino poco istruito, bisogna dire che il padre di Édouard si esprimeva meglio di tanti laureati odierni). Nella casa troppo vasta e troppo solenne degli zii, tutto per il piccolo Malempin è strano, estraneo, minaccioso o incomprensibile, a partire dalla figura del prozio Tesson, che ha il piede equino. Ciò, tuttavia non gli ha impedito di prendere in moglie la giovane Élise, bionda, grassoccia, sensuale: una donna agli antipodi della madre di Édouard. Una donna che, con grande scandalo della nipote acquisita, viene da una famiglia di estrazione modesta (il padre era un oste) e che ai parenti serve ogni domenica una torta.



Un pensiero gentile, direte voi. E invece no: perché proprio quella torta rappresenta e sintetizza la differenza irriducibile fra le due: perché per la madre di Édouard quel dolce, acquistato dal panettiere, è di una volgarità estrema, troppo soffice, troppo sfacciata, troppo appariscente, troppo dolce, oltre che indigeribile. I figli, Édouard e i due fratelli, quella torta la mangerebbero anche, ma siccome è molto volgare e indecoroso per un bambino di buona famiglia ingozzarsi a casa dei parenti, la madre insiste perché, a metà del tragitto per arrivare a casa degli zii, i tre bambini mangino delle fette di pane e burro che la donna si porta previdentemente appresso, perché non arrivino troppo affamati in città.

E quando la madre di Édouard si lascia scappare una battuta incauta, un pomeriggio, quando i toni diventano aspri, la bella prozia sbotta dicendo che un giorno potrebbero rimpiangerla, quella volgare torta di mele del fornaio. Sì, perché la famiglia Malempin è pesantemente indebitata, e chi ha prestato loro una grossa cifra è proprio Tesson, che, un giorno, si presenta a casa dei parenti in campagna. E poi? Che cosa è stato di lui? Di certo, non è tornato a casa, ma dove può essere finito? In occasione di quella visita, Édouard era ammalato, e se ne stava in cucina, la stanza più calda della casa, in una poltrona di fronte al fuoco: per cui, avendo assistito all’arrivo di Tesson mentre era stordito dalla febbre, forse ricorda male; forse la madre non ha consapevolmente mentito, forse si è sbagliata in buona fede. Certo, quando, settimane dopo, il bambino vede emergere, da un cumulo di sporcizia ammonticchiato in un campo, un polsino da uomo con un gemello che sembra proprio quello del prozio, spavento e disgusto lo travolgono. Ma tace.

Il caso della scomparsa di Tesson resterà insoluto, e fra la zia Élise e la signora Malempin nasce una sorta di strano accordo, per cui la vedova di Tesson ospiterà Édouard quando il ragazzo si trasferirà in città per studiare, e, prima di fare una brutta fine – come spesso accade nelle storie di Simenon alle donne troppo sensuali e procaci – la zia finanzierà il corso di medicina che consentirà al nipote di costruirsi una rispettabile carriera. Apologo potente sui silenzi e sul non detto che determinano spesso le nostre vite, Malempin è uno dei migliori romanzi di Simenon e, cosa non da poco, si conclude con un barlume di speranza.

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