Con Marie la strabica (Adelphi), scritto a Lakeville (Connecticut) nel 1951, Georges Simenon torna a esplorare uno dei temi che più gli sono congeniali, l’analisi di un “tipo” femminile scandagliato in modo magistrale, come in Betty, e, insieme, il rapporto fra donne, oltre alla fame di riscatto sociale, tema trasversale a tanta sua produzione.



Quanto più lontano si trova dall’Europa, tanto più Simenon riesce a ricreare l’atmosfera vischiosa della provincia: Marie e Sylvie sono due amiche (se così si può dire) diversissime fra loro. Sylvie è bella, vistosa, con un seno che attira gli sguardi degli uomini; Marie, invece, oltre che strabica, è magra, quasi macilenta, con il petto scavato, con una figura così triste e infelice che a scuola i compagni la scansano, ritenendo addirittura che porti sfortuna. E, come spesso accade, tra la bellona del gruppo e la bruttina scatta sempre un’affinità che determina un rapporto dove la solidarietà e la conflittualità si alternano: così, fin da bambina Sylvie promette a Marie che quando, da grande, sarà una gran signora a Parigi, l’amica la seguirà nella capitale e sarà la sua cameriera.



Nelle pagine di apertura del romanzo, ambientate nel 1922, però, Marie e Sylvie, diciassettenni, sono entrambe cameriere in provincia, nella cittadina dove sono nate e cresciute, in un alberghetto sul mare. Già in questa prima ambientazione, la tragedia presenta il suo conto: Louis, il giovane spilungone figlio dell’anziana donna di servizio dell’hotel, fragile e disturbato, si toglie la vita, e il suo suicidio è causato proprio da Sylvie, che inizia poi una relazione con un ospite dell’albergo, Monsieur Luze, un imprenditore la cui moglie ha passato la stagione al mare con i bambini. Ma il rapporto di Sylvie con Luze non ha nulla a che vedere con l’amore, dato che la ragazza ha un solo pensiero, un autentico chiodo fisso: fuggire dalla povertà, diventare ricca, farcela, in qualsiasi modo.



A fine stagione, le ragazze si trasferiscono a Parigi, e si impiegano: Marie in un ristorantino a conduzione familiare, dove sembra persino trovare un corteggiatore, un ragazzone un po’ timido, con gli occhiali dalle lenti spesse, che lavora come contabile; Sylvie nella ditta di Luze, come dattilografa. Ma qualcosa non va secondo i piani, e le strade delle due ragazze si separano. Si rivedranno soltanto nel 1945, o meglio: in quell’anno Sylvie intravede Marie tra la folla che assiste alla parata della Vittoria. Ma se Marie è per la strada, mescolata alla bolgia di uomini, donne e ragazzi esultanti, Sylvie si trova al balcone di un elegante palazzo, insieme al suo amante, il ricco Omer.

Già, perché, secondo i suoi piani, la ragazza, ormai diventata una donna matura e scafatissima, ha accalappiato un noto industriale infelicemente sposato e senza figli: e se una mantenuta qualsiasi si accontenterebbe di una pelliccia, di gioielli, di un appartamento, di conti pagati dalle sarte più in voga, Sylvie, al contrario, vuole tutto. Per cui, cinque anni dopo, ricorrerà a Marie, che la dovrà aiutare nel momento in cui, a un soffio dal concretizzare le sue aspirazioni, sembra sul punto di perdere tutto. Omer, infatti, ha nominato erede universale Sylvie, lasciandole tutto, compreso il palazzo di famiglia, tetro sin che si vuole, ma icona della rispettabilità alto-borghese cui la donna ha sempre aspirato; perché a Sylvie non basta la metà del patrimonio, non basta una bella casa, non basta l’agiatezza, tutte cose che, in fondo, già possiede, o potrebbe avere senza difficoltà. No, Sylvie vuole la casa, vuole il palazzo avito, vuole essere finalmente la padrona di tutto, vuole essere una signora servita e riverita, uscire dal cono d’ombra delle mantenute, seppure di lusso, e ora che il suo amante, in fin di vita per un ictus, è circondato dai parenti, la grande paura è quella che costoro, in un momento di lucidità, possano strappare a Omer una firma su un nuovo testamento, dove non sia più nominata Sylvie.

Perché Marie si presta alle richieste dell’amica? Apparentemente, Marie sembra molto meno spregiudicata di lei; eppure nelle due donne c’è qualcosa di profondamente simile, e il loro rapporto è narrato da Simenon come una sorta di variazione al femminile, intrisa di grande sagacia nell’analisi psicologica, dell’hegeliano rapporto servo-padrone, con una conclusione che ci lascia l’amaro in bocca, come è tipico di Simenon, e però, allo stesso tempo, con un senso di ineluttabilità che ci fa dire che la storia poteva finire solo così.