Il modo più probabile con cui un lettore non specializzato in Italia possa venire a contatto con l’opera di Pierre Ryckmans (1935-2014), universalmente conosciuto con lo pseudonimo Simon Leys, sinologo e scrittore australiano di origine belga, è interessandosi dei Detti di Confucio – di cui fece una originale traduzione (curata per Adelphi da Carlo Laurenti, della quale disse: “non si dà ermeneutica migliore di una traduzione come questa”) –, oppure di filosofia cinese in generale.
Può essere, infatti, che uno studente ai primi anni d’università incappi nei volumi della Storia del pensiero cinese di Anne Cheng, la quale nelle primissime pagine ne cita una frase in grado d’ispirare qualsiasi principiante nello studio della cultura di questo paese e della sua lingua: “Dal punto di vista occidentale – scriveva Leys –, la Cina è semplicemente l’altro polo dell’esperienza umana. […] Soltanto quando consideriamo la Cina possiamo davvero prendere una misura più esatta della nostra identità, e cominciamo allora a percepire quale parte della nostra umanità appartiene all’umanità universale”.
Leys fu infatti – come ribadisce uno dei suoi allievi, il prof. Geremie R. Barmé, ricordandolo in questi giorni sul suo sito di sinologia China Heritage – questo in primo luogo: un amante e studioso della cultura (in particolare dell’arte e della letteratura) cinese, dalle quali fu folgorato da giovanissimo durante un viaggio nella Repubblica Popolare, e in cui trovò una visione globale dell’uomo ed un umanesimo altrettanto valido di quello della nostra tradizione.
Entrambe, come scrive Barmé, condividono del resto una fondamentale convinzione, riassumibile nel motto erasmiano Homo fit, non nascitur: “Non si nasce uomini, lo si diventa”. “È questa – spiega Barmé – l’essenza dell’impegno umanista, un impegno esemplificato dalla erudizione di Ryckmans, dalla sua carriera di insegnante e di mentore, lo spirito dei quali è tangibile ancora nelle sue opere sulla letteratura, sull’arte, sul pensiero e sulla cultura”.
Fu questo suo stesso profondo legame con il mondo cinese (aveva vissuto a lungo a Singapore, Hong Kong e Taiwan, dove incontrò la sua futura moglie), a portarlo a intervenire nel dibattito pubblico intorno alla politica e alla società del paese con dei saggi appassionati e dissacratori, quali ad esempio Gli abiti nuovi del presidente Mao o Ombre cinesi (1971 e 1978), incentrati sulle lotte di potere durante la rivoluzione culturale e in contrasto con l’ingenuo maoismo dilagante nei circoli intellettuali francesi di quel periodo. Sono scritti pervasi da quella che è stata definita più volte una “sincera indignazione”, che sfidano e stimolano ad una più profonda comprensione del nostro rapporto con questo grande paese in costante trasformazione ma dalla storia millenaria.
Alcuni degli altri suoi libri (tra cui, ad esempio, un’opera su George Orwell, Orwell o l’orrore della politica, il resoconto di un viaggio – quando ancora ce n’erano – su una nave tonniera bretone, I naufraghi del Batavia e Prosper, o il breve sottile romanzo dal gusto filosofico, La morte di Napoleone) sono stati tradotti dalla casa editrice romana Irradazioni, purtroppo ormai da anni soltanto acquistabili online. Andrebbe per altro detto che una traduzione – fra le altre opere ancora non apparse in Italia (viene in mente una brillante ed eclettica raccolta di pensieri ed aforismi, intitolata I pensieri degli altri, che aveva “compilati idiosincraticamente per il lettore sfaccendato”) – della sua biografia Simon Leys: Navigateur entre les mondes di Philippe Paquet, che Leys stesso ebbe modo di vedere negli ultimi mesi della sua vita, sarebbe più che benvenuta, per scoprire altri aspetti della sua vita ed opera (nonostante egli amasse riportare a riguardo un pensiero di Milosz: “Ovviamente tutte le biografie sono false […] Le biografie sono come le conchiglie: non dicono granché del mollusco che le abitava”).
Una volta andato in pensione – che amava chiamare, come gli spagnoli, jubilación –, Leys poté ritirarsi dalla vita accademica e dedicarsi finalmente a tempo pieno, oltre all’amata vela, alla lettura e alla scrittura. Quest’ultimo periodo di non meno intensa creazione letteraria, è caratterizzato da composizioni brevi e profonde che spaziano negli ambiti più disparati, occasionate da esperienze o aneddoti curiosi, da viaggi, da libri da recensire, molto spesso biografie degli autori che più ammirava (si pensi all’ultima grande raccolta di saggi Lo Studio dell’inutilità, in cui si possono leggere articoli sul Don Quixote, su Victor Hugo, il principe de Ligne, Simenon, Henri Michaux, Nabokov, Conrad, Evelyn Waugh o ancora – una delle sue ultime fatiche – su André Gide.
Ritiratosi dalla sua posizione accademica, anticipando la pensione, Leys non risparmiò di esprimersi su questo tema che, come menzionato, gli stava molto a cuore – quello dell’educazione e dell’università. Egli pensava che quest’ultima in particolare stesse abbandonando il suo terreno più proprio o “mezzo di operazione spirituale”, ovvero “l’esistenza dei valori oggettivi”, e cedendo sostanzialmente alla “tentazione utilitaristica”. Si prenda ad esempio l’affondo lasciato in uno dei commenti ai Detti di Confucio: “L’aspirazione universale dell’umanesimo confuciano dovrebbe essere particolarmente rilevante per noi, visto che le università moderne sembrano sempre più interessate alla pura e semplice formazione di ‘bruti specializzati’”.
Non ci sarebbe tuttavia modo migliore di concludere, che accennando alla prima delle sue pubblicazioni, risalente agli anni sessanta, quando Leys era ancora un giovane ricercatore e insegnante del New Asia College ad Hong Kong. Si tratta di una traduzione dei racconti autobiografici di un eccentrico e povero erudito originario di Suzhou, vissuto durante la dinastia Qing: i Six récits au fil inconstant des jours di Shen Fu (1763-1809?) – gli stessi che, un altro grande sinologo, Lionello Lanciotti, tradusse qualche anno prima in Italia sotto il titolo di Sei racconti di vita irreale (oggi riedita con una nuova traduzione da Luni Editrice).
Questi – come scriveva Ryckmans nella prefazione – ci permettono, certo “di penetrare in maniera diretta e naturale nel cuore della vita cinese tradizionale”; tuttavia, “dopo aver nutrito e ispirato milioni di uomini per dei secoli, l’universo tradizionale evocato da Shen Fu sta per scomparire, forse per sempre. Ma anche se questo mondo antico dovesse svanire dalla faccia della vita, non di meno Shen Fu rimarrà un compagno infinitamente caro e vicino nell’incerto viaggio della nostra esistenza – giacché egli detiene un segreto di cui abbiamo bisogno oggi più che mai: il dono della poesia, il quale non è il privilegio di qualche profeta eletto, bensì l’umile appannaggio di tutti quelli che sanno scoprire, sul filo incostante dei giorni, il persistente coraggio di vivere e il sapore fuggitivo dell’istante”.
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