Il giornalista e scrittore Marcello Veneziani, in un discusso editoriale per il quotidiano la Verità, ha definito la sinistra politica italiana come una cupola mafiosa, che impone il suo volere contro la sovranità popolare e viola la Costituzione. Lo fa asserendo di esserne contemporaneamente l’unica difesa ed elogiando a senso unico la magistratura solo fin quando giudica e condanna i suoi avversari politici.



È una definizione complicata e scivolosa al tempo stesso. Non è esatto dire, come spesso fa la semplificazione gergale, che la sinistra abbia governato quattro volte in otto anni senza aver mai vinto le elezioni. Le elezioni in questi otto anni non le ha chiaramente vinte mai nessuno, ivi compresa la Lega, che ha prevalso alle elezioni europee, ma che alle politiche del 2018 si era fermata al 17%: troppo poco per reclamare una vittoria piena.



La Lega, peraltro, si era presentata in una coalizione che si è sciolta all’indomani del voto sul piano nazionale (insieme a Forza Italia, Fratelli d’Italia e Udc) ma che proficuamente continua a governare numerosi enti locali, dove anzi ha al momento incrementato i suoi consensi. Il Partito democratico le elezioni del 2013 le aveva vinte di misura, in una coalizione che aveva ottenuto quasi il doppio dei voti della Lega nel 2018, ma senza ottenere la maggioranza parlamentare. La Lega e i 5 Stelle governavano fino a ieri insieme per un fatto di numeri e di veti: dopo le loro campagne elettorali tumultuose e accusatorie, allearsi col Pd sarebbe stato impossibile.



I “nuovissimi” trionfatori erano loro, ma nessuno dei due movimenti era in grado di esibire i numeri sufficienti a farcela da soli. Giova poi ripetere che, proprio per come previsto dalla Costituzione e proprio per come dimostra la storia politica del Paese, le maggioranze si fanno e si verificano in Parlamento e il governo abbisogna della loro fiducia: in caso contrario, vanno trovati nuovi numeri e formati nuovi esecutivi.

La notazione di Veneziani non è perciò interessante per dimostrare l’aggiramento di sovranità popolare. Quella, semmai, è in crisi da tempo, da quando l’elettore non sceglie più direttamente i propri rappresentanti, da quando i concreti indirizzi di governo non maturano nella discussione dei partiti, ma nelle cancellerie e nelle sede finanziarie internazionali, da quando la partecipazione continuativa non è più un valore ma un’appendice e un sacrificio, privo di capacità trasformative del reale. Concentriamoci sulla prima parte del problema, non sul “deficit di vittoria” (che, come visto, riguarda oggi tutte le forze politiche italiane). È la sinistra una cupola mafiosa?

Bisogna prima di tutto intendersi su cosa sia la sinistra. Far coincidere la sinistra e il Pd è operazione discutibilissima. Da sempre, la sinistra italiana è refrattaria a concludersi in un partito. Non il Partito comunista (Pci) avant’ieri, non i Democratici di Sinistra ieri, non il Pd di oggi, hanno mai racchiuso tutto lo specchio dell’elettorato di sinistra. Il partito di maggioranza relativa di quel segmento di società ha all’opposto sempre più diluito il radicamento ai propri temi tradizionali, dal lavoro ai diritti sociali, dalla riforma dello Stato in senso democratico pluralista alle libertà fondamentali. L’impressione è che Veneziani di questa sinistra, tuttavia, parli. Non quella immediatamente più a sinistra del Pd, che dal 2008 ad oggi a ogni elezione ha dato vita a nuovi cartelli che hanno progressivamente perso sempre più voti e sempre meno messo a fuoco un’identità collettiva. Non la sinistra sociale che sopravvive in Italia tra i rivoli di mille battaglie (il diritto all’abitare, la tutela del fenomeno migratorio, le libertà civili, la sicurezza dei luoghi di lavoro, il precariato reddituale).

L’intellighenzia della sinistra moderata è, allora, una “cupola”? La definizione di Veneziani, intenzionalmente caustica, apre due squarci interessanti. La politica italiana tutta è estremamente consociativa e corporativa. Fino a soli due decenni addietro, proponeva però una narrazione quotidiana: c’era una stampa di partito e d’opinione, c’era una narrazione sociale dello Stato, c’era un’idea di partecipazione anche nei piccoli comportamenti concreti. Le “famiglie” politiche sembravano Stati nello Stato, senza però quasi mai negare legittimità al “tutto”.

Oggi è il contrario: i partiti e i movimenti aggregano sempre meno al proprio interno e sono sempre più rissosi, tuttavia, verso ciò che si trova fuori dalla propria forza elettorale, dal proprio interesse particolare, dal proprio potere reale. Certo, è la politica tutta ad essersi isolata come “cupola”, come mera attività di acquisizione di cariche di potere. Raggiungerle, col consenso o con l’ingegneria istituzionale, è l’unico scopo; è stata falciata in radice la filiera di discorsi, di impegno, di azione civile, che dava una veste e un’anima alla ricerca del consenso e all’interpretazione politica delle istituzioni giuridiche civili.

Quanto al giustizialismo, esso stesso pare pure patrimonio ormai totalmente condiviso. Il “vuoto” di presenza sociale ha conferito alla magistratura in tante stagioni di vita pubblica un ruolo salvifico e supplente di ripristino della legalità e, persino, della moralità nel governo e nell’amministrazione. Finché le parole d’ordine sono il “via tutti” (quelli che non sono io), il politico è sempre più la via di mezzo tra un tribuno e un inquisitore, che cerca l’aiuto dei tribuni veri e degli inquisitori veri. Ma non è giustizialismo anche quello di invocare la forca per la marginalità sociale, senza saper proporre una soluzione previa e sostanziale ai problemi? È anzi un giustizialismo persino peggiore: perché il primo si traveste, indubbiamente, da moralismo laico, ma il secondo agita con pretese religiose umori evidentemente irreligiosi e settari.

Forse su questo la destra dovrebbe riflettere quanto la sinistra: se togli a un contesto sociale una pratica della vita e dei beni comuni, governa non il migliore, non il più amato, non il più convincente, semplicemente il più abile a nascondere i propri limiti. La similitudine più appropriata non ci pare allora la cupola mafiosa, ma un branco che marcia spedito, ignaro se davanti a sé sia la prateria o il dirupo.