“Tutta in te mi salvo” ricorda implorante la concubina Tecmessa nella tragedia sofoclea al suo padrone Aiace, sconvolto, dopo essersi reso conto che la notte precedente aveva fatto mattanza di bestiame e non di nemici, gli Atridi Agamennone e Menelao, colpevoli di aver assegnato le armi di Achille dopo la sua morte ad Odisseo e non al secondo eroe più forte dell’esercito: lui. Beffardo scherzo di Atena che, per proteggere il suo Odisseo dalle minacce di morte di Aiace, aveva velato gli occhi del guerriero.
Quale scudo più grande del suo potrà dunque proteggerlo dalla derisione dei suoi? Nessuno. Quale impresa più ardita di tutte quelle già compiute dal Telamonio potrà cancellare quest’onta? Nessuna. Nessuna via di uscita!
Eppure una donna, Tecmessa osa affermare: “Tutta in te mi salvo”, aprendo una crepa nell’animo di Aiace e sfidando le nubi oscure che annebbiano la sua mente: “Io nacqui da un padre libero, potente per ricchezza come nessun altro tra i Frigi; ed ora sono schiava (…) ma da quando salii sul tuo talamo, io penso unicamente al tuo bene, e ti prego, in nome di Zeus protettore del focolare (…), non fare che mi colga doloroso insulto ad opera dei tuoi nemici, lasciandomi in potere di uno di loro”. La donna esorta il suo signore per il bene che li unisce a non togliersi la vita; che nessuno possa guardare lei e il loro figlio Eurisace e pensare al tristo destino dell’eroe! Sicuramente negli spettatori ateniesi non potrà non essere venuta in mente una supplica simile: un eroe e la sua donna, la paura, il destino da compiersi, l’implorazione per la vita in nome dei figli. In una parola: Omero; il VI libro dell’Iliade, l’incontro tra Ettore e Andromaca.
La città di Troia è assediata dagli Achei, Aiace Telamonio – proprio il protagonista sofocleo – e i suoi non hanno rivali nella contesa. Ettore, cosciente del destino a cui potrebbe andare incontro, rivolge il pensiero ai suoi cari, a sua moglie, Andromaca. I due si cercano, si incontrano alle porte Scee. La donna rivolge a Ettore queste parole: “tu sei per me padre e nobile madre e fratello, tu sei il mio sposo fiorente (…) non fare orfano il figlio, vedova la sposa”. Anche Andromaca come Tecmessa rimette tutta la vita nelle mani del suo uomo. Anche lei avrebbe potuto dire secoli prima “Tutta in te mi salvo”. Ma emerge un rovesciamento di prospettiva: in Omero le parole di Andromaca hanno lo scopo di allontanare Ettore dalla guerra per averlo alla vita, alla loro vita familiare; in Sofocle Tecmessa vuole avvicinare, o meglio, far attaccare ancora di più Aiace alla vita, esortandolo all’eroismo di cui è capace per distoglierlo dalla morte. Tutt’e due per amore.
“Chi potrebbe essermi patria, al posto tuo? Chi ricchezza?” chiede Tecmessa al suo interlocutore, che non risponde, ormai ombra di sé stesso. Dopo ciò che ha fatto è un fantasma, dice lo stesso Odisseo alla dea Atena nel prologo. Aiace non c’è più nei pensieri, nelle azioni nella parte iniziale dell’opera rispetto al personaggio di Tecmessa che nelle battute e nelle intenzioni sceniche comunica invece sicurezza nella presaga sciagura, fierezza per la sua storia, tanto da ricordare Ettore davanti alla sua sposa; sì, perché è lui a far cessare la supplica di Andromaca, ricordandole il grave destino a cui potrebbe andare incontro con la sua morte. “E dirà qualcuno che ti vedrà lacrimosa: ‘ecco la sposa d’Ettore, ch’era il più forte a combattere/ fra i Troiani domatori di cavalli, quando lottavan per Ilio!’”.
Riecheggia quasi la voce di Tecmessa in questi versi. Il parallelismo dunque che gli spettatori sofoclei avranno colto è nel richiamo strutturale tra la figura di Ettore e quella di Tecmessa. Entrambi guardano al destino che li attende, più grande della vita stessa. Che fine ha fatto dunque l’uomo omerico, l’eroe che sacrifica la sua vita sull’altare della fama e della gloria imperitura? È ombra, è polvere, fantasma di sé stesso nella tragedia sofoclea. È come se il drammaturgo non trovasse più nelle sue opere un eroe in grado di incarnare il mito della bella morte; e allora cosa rimane di quel mondo epico? La spada di Ettore che Aiace conserva con cura, da quando il troiano gliel’ha consegnata dopo un duello tra i due. La spada, simbolo di quella dignità che Aiace cerca. Questo testimone che Ettore consegna al suo nemico trova un braccio forte per sostenerla, ma non un cuore forte per incarnare i valori di un’epoca che non c’è più. Quella spada porta il sigillo della morte di Aiace che la usa per togliersi la vita.
La chance è ora in mano alla donna, a Tecmessa, a Elettra, ad Antigone e a tutte le altre eroine sofoclee e non che vogliono smuovere la coscienza ateniese e riscrivere forse la formula “Tutta in me mi salvo”. Solo in me, donna, posso ormai trovare la forza di cambiare il mio destino e il mondo.
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