Sono solo canzonette”, si diceva un tempo. Col cavolo!

Certo esiste davvero un mare magnum in cui l’anima beata e beota affoga in infiniti rumori di fondo. Ma esiste pure, nascosto e prelibato, un piccolo rivolo, un torrentello, un Sand Creek, in cui lo spirito si tuffa e si ristora, si rigenera, si trasforma. Entra cantando ed esce pieno di poesia, di letteratura. E perché no? Di pittura, di filosofia e perfino di teologia. Perché l’arte è capace di metamorfosi straordinarie e ciò che oggi è lirica, domani è quadro e viceversa. E cosa c’è di più poetico del morire? E chi meglio di un poeta sa raccontare la poetica della morte?



A leggere Sognai talmente forte di Massimo Bubola (Mondadori, 2022) vengono in mente due grandi capolavori della letteratura: La morte di Ivan Il’ic di Tolstoj e Mentre morivo di Faulkner, ma forse anche un po’, sempre di Faulkner, New Orleans Sketches. Non perché vi siano influenze o suggestioni. No. Perché ogni morte cantata è una morte nuova e insieme così universale, da sembrar da sempre conosciuta. Voglio dire: fin dalla nascita. E vivaddio, perfino morire è questione di ritmo, di metrica.



Ecco la questione che pongono questi grandi capolavori: il morire è la più grande delle epiche personali e familiari. E per questo, proprio perché è un’epica, esso è teatro allo stato puro. Tragedia. Narrativa cadenzata su piani liturgici che Massimo Bubola conosce benissimo e utilizza con la maestria del drammaturgo, prima ancora che dello scrittore, ammesso che fra i due possano esserci cesure.

Tutto avviene in una giornata e tuttavia in quelle poche ore in cui tutto si compie, il tempo sembra fare capriole intorno a se stesso, sgomitolandosi bergsonianamente e mescolandosi – come dev’essere in una corretta interpretazione einsteiniana della questione – ai luoghi, formando un relativo così ben fatto da essere un assoluto.



Se il testo potesse essere letto da gente come Luigi Russo, Mario Fubini o – addirittura – da Gianfranco Contini, essa troverebbe senza dubbio la struttura narrativa, i piani su cui Sognai talmente forte si dipana. Quello centrale – di protagonista (in quanto depositario del segreto) e di vittima (in quanto condannato al silenzio) – di Callimaco, che come Ajace narra il suo morire con un carico di vita straordinario. La scommessa, ovvero, l’azzardo di Bubola è di quelli che lasciano senza fiato: si può morire cantando? Certo che si può, come ci insegnano i classici che Bubola conosce perfettamente e maneggia con grande maestria.

Un altro piano narrativo, apparentemente pudico e silente, è quello di Ermelinda, la donna di Callimaco “un po’ Cerere e un po’ Proserpina, dee delle messi e della resurrezione della terra”. Ermelinda accompagna e amministra. Non chiede e non spiega, come dev’essere in una donna feconda. Eppure è lei il filo conduttore di tutto il mistero. È il mistero: “incrociai il suo sguardo per un istante e la vidi sparire oltre la semioscurità del bosco”. Callimaco esiste perché esiste Ermelinda. La parola esiste nel silenzio di Ermelinda: “Col tempo sono invece riuscito a intuire la parabola di questo volo, e il punto di atterraggio del mio cuore: non più tra un pagliaio e uno stagno, ma tra le tue braccia, Ermelinda: Gerusalemme della mia anima”.

Com’è dolce il dialogo d’amore del morente! Tutto si scioglie in parole nuove che nell’elettricità della vita viva è difficile pronunciare. Non c’è più nulla da perdere. Tutto ormai è stato guadagnato. È insomma la vita morente che restituisce la giusta misura. Ecco perché la morte è metrica, endecasillabo, verso perfetto, senza sbavature.

Il terzo piano è quello del nipote americano Gilroy. È il portatore delle domande, di quella sete di profondità che viene da un’America inquieta, senza radici significative e insieme capace di trasformare Petrarca in un modello da beat generation. È l’altro polo di Massimo Bubola che riesce a dondolare versi, prose e canzoni tra Eschilo e Burroughs, Virgilio e Dylan, Alfieri e Rilke. Gilroy è il mondo nuovo (e il tempo nuovo) che al cospetto di un mondo che muore cerca di succhiarne la linfa vitale per trasformarla in ritmo, come solo gli americani con radici irlandesi sanno fare:

“Gilroy sorrideva alle parole del nonno e batteva col piede il passo dei Cretesi a Delfi e girava le mani per cambiare gli accordi su una chitarra immaginaria, come se stesse accompagnando una lunga ballata sulla vita, la morte e i miracoli del poeta dei luminosi giorni”.

Ma questi tre piani narrativi non possono circoscrivere il gorgoglio ininterrotto e crescente della poesia della morte e del ricordo. Un gorgoglio sonoro e vitale che sale dal sudario del morente e trasporta in un altrove che si dilata nello spazio e nel tempo. Di cosa son fatti i ricordi? Quest’opera ce lo dice chiaro e tondo: son fatti del respiro delicato del morente che parla a se stesso, e dunque colloquia con il mondo. Quel mondo che finisce, abbandonato a se stesso. Son fatti della stessa materia di cui son fatte le canzoni, quelle vere, che valgono in quanto capaci di rubare attimi alle distrazioni. E in quest’opera c’è tutto l’universo letterario, quindi esistenziale, di Massimo Bubola. Non perché lo compendia, ma perché lo vivifica.

Callimaco, uomo-opera morente, è certo un po’ Massimo, ma è un po’ tutti noi che cominciamo ad annusare la morte sotto il peso degli anni. E vien da chiedersi: è possibile una vita letteraria? Si, è possibile. Con tutto il peso che ogni parola pensata ed amata cala sulle spalle di chi ha la ventura di incontrarla. Come un amore senza carne, dunque senza la scappatoia di una corporeità evasiva e confortante. Quando il tuo amore diventa una canzone è fatta. Non è più possibile tornare indietro: “Le parole sono messe una accanto all’altra come lampadine tonde di una collana: ognuna riflette la luce e il suono dell’altra e ne è riflessa e riverberata a sua volta, e insieme formano una ghirlanda che, come uno sciame radioso, nelle sere vaga e saltabecca sui boschi e sulle nere colline, duettando col firmamento che scorre”. Chissà perché Ermelinda mi rimanda all’Ersilia di Metello, che si spaventa di un amore fatto di parole vuote, tanto per dire. Ma Callimaco non è Metello perché ogni sua parola è centellinata in un’alchimia radiosa e insieme tragica. Perché – diciamolo – ogni parola ha davanti a sé due sole possibilità: o è tragica o è comica. Dunque Ermelinda è salva nella sua femminilità liturgica: quaresima, avvento, natale e resurrezione.

Ogni capolavoro rimanda ad un capolavoro. È questo il bello della grande letteratura: in essa ritrovi un universo letterario, come se la comunità dei pensanti si sostanzi in una comunità dei santi. E allora ecco un’altra suggestione: la coralità della morte che rimanda alla sua dimensione pubblica: “Intanto la grande stanza da letto s’era silenziosamente riempita di persone che entravano in punta di piedi e si mettevano a cerchio intorno al letto come sui palchi di un teatro e ascoltavano, attratti dal profumo e dalle melodie dei dialoghi d’amore tra Ermelinda e Callimaco, che continuavano a non vederli, come se la luce del sole che entrava dalle grandi finestre facesse tutti gli altri intorno scomparire”.

Altro che fatto privato, nascosto, silente. Intorno a Callimaco, come intorno ai Malavoglia o a Elettra, a Edipo o a Ifigenia, vi è un coro attivo che – come in una canzone – fa da tappeto musicale, da metronomo accorato a ciò che avviene nel letto del morente. Intorno a Callimaco vi è un andirivieni di anime che non solo assistono al mistero che si compie in quel luogo che si sta facendo sacro, ma compartecipano, in quanto essi stessi morenti, ad una rappresentazione in infiniti atti: “Fuori, lungo i corridoi della casa, c’era una teoria sommessa di donne vestite di scuro che pregavano sottovoce, di uomini che sottovoce bevevano piccole tazze di caffè e di bambini con una fetta di torta in mano che, sottovoce, sbocconcellavano e ridacchiavano tra loro”. E torna, prepotente, la geografia umana che si dispiega ruvida e dolcissima tra la verghiana piana di Lentini e la vittoriniana Agira (Le città del mondo). Se non è la Sicilia, certo c’è tanto della Sardegna che Massimo ha percorso in lungo e in largo, ai tempi del sodalizio con Fabrizio De André. Pastori, greggi, piazze, fontane, lutti, serenate, orfani, preti e monaci, vino, flauti e cani, reietti e padroni, pietre e fiori di rosmarino.

Infine, le canzoni, il vero filo rosso dell’opera. Come se Massimo Bubola avesse sentito l’esigenza di ordinare la sua opera poetica in un mondo, o meglio, in un corpo. Operazione unica, tentativo eroico di compressione di una sterminata produzione che, dagli anni giovanili, sembra essersi “colata”, col passare degli anni, in una vita vera. Le canzoni respirano, dunque; amano, soffrono e muoiono. Ecco l’incarnazione. Ecco perché, sì, si può esistere dentro un verso. Calliope muore cantando. Se taluni possono stupirsi, in realtà questo dovrebbe essere l’unico modo degno di morire vivendo.

Tutto si compie il 24 maggio, data assai cara a Massimo. Il passaggio del Piave come un passaggio dello Stige. Giorno epico, perché la morte è epica. Così Calliope si congiunge nel dispiegarsi del metro, agli Ignoti che Massimo ha cantato in Ballata senza nome. Ed Ermelinda si congiunge, nella femminilità pietosa e narratrice, a Maria Bergamas, che quegli sventurati ha accarezzato con la tenerezza infinita della sposa e della madre.

Alla radice del vivere e del morire, sta dunque una donna. È la misteriosa funzione della patria, dell’appartenenza, la sola che possa permettere, in vita e in morte, il vero, sospirato riposo. Per questo l’amore va cantato, come la vita e come la morte. Perché “Le canzoni non ti fanno morire d’esilio perché, cantando, le parole ti mostrano i muri e le piazze della tua lontana, malinconica patria e ti riportano a casa. Di strofa in strofa, di onda in onda, di strada in strada ti riportano a casa”.

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