“Scrivere è diventato un modo per stare dentro tutto ciò che mi capitava. Serviva a me, alla mia autostima, a volte alla mia disperazione”. La scrittura come terapia non rappresenta certo una novità. Esistono decine di studi scientifici e di “scuole” che ne avallano il valore, per non parlare di quanto hanno testimoniato gli scrittori di professione. Kafka, per esempio, secondo cui “scrivere è discendere nel freddo abisso di se stessi”.



Quando, poi, è la malattia che spinge in questa direzione, il gesto di vergare parole su un foglio – elettronico o di carta – somiglia tanto a quello del mendicante che allunga la mano – a volte virtuale, a volte fisica – per “farsi incontro con le domande del mondo, con la propria miseria e pochezza, al cospetto di un Mistero su cui può far differenza una maiuscola”.



I virgolettati sono di Maricia Roccaro, medico nefrologo catanese, che cinque anni fa scoprì per caso – semmai il caso esista –, partecipando ad un’indagine avviata nel reparto di nefrologia dove lavorava, di avere una malattia rara. La Fabry-Anderson, accertata nel 1898 ma per un secolo relegata nel limbo delle scoperte medico-scientifiche prive di risvolti pratici, è un disturbo metabolico ereditario causato da una mutazione del Dna. La sua incidenza è di un caso ogni 20mila fra le donne, il doppio fra gli uomini: in termini assoluti, più o meno settecento persone in Italia. Con un’aggravante a carico del sesso femminile perché è il cromosoma X che trasmette la malattia.



Dolori insistenti alle estremità, intolleranza all’esercizio fisico, difficoltà di sudorazione, lesioni vascolari cutanee: quando Maricia scopre che quei sintomi, di cui soffriva da tempo, sono le spie della Fabry–Anderson, passa in un momento dall’altra parte della barricata pur continuando a starne al di qua. Medico e paziente diventano in lei la stessa cosa. “La mia storia personale stava cambiando. Con un incontro, dentro lo stupore dell’imprevisto”.

Il suo è un cattolicesimo di tradizione, molto formale e poco convinto, eppure quando è messa con le spalle al muro, presa per di più dal rimorso per la pesante eredità passata ai due figli ancora piccoli, riconosce che solo “chi si stupisce regnerà” – come assicura un vangelo apocrifo – e che per stupirsi occorre fare esperienza dell’imprevedibile. Come Eugenio Montale in Prima del viaggio: “E ora, che ne sarà/ del mio viaggio? Troppo accuratamente l’ho studiato/ senza saperne nulla. Un imprevisto/ è la sola speranza. Ma mi dicono/ che è una stoltezza dirselo”.

Maricia non ci sta. Preferisce passare per stolta agli occhi del mondo che esserla veramente agli occhi suoi e di chi le vuol bene. Sul diario che comincia a tenere fin dagli albori della sua nuova vita appunta una domanda, una sola: “Ma tu credi in Dio? Ho capito ben presto, cercando di darmi delle risposte, che è pressoché impossibile lavorare e vivere accanto al dolore, alla sofferenza, alla malattia e alla morte evitando il confronto con la dimensione spirituale dell’uomo”.

Il pugno allo stomaco è stato forte, ma sul ring della vita sceglie di stare al centro, non all’angolo. La sua formazione professionale è impregnata di cultura scientifica, certo, ma anche umanistica. Lontani i tempi in cui la sua professoressa di lettere al liceo l’aveva additata alla classe quale esempio di come “non bisognava scrivere”, messe da parte così le velleità letterarie, presa una laurea in Medicina con 110 e lode, interpreta la professione anzitutto come ascolto del malato che si affida a lei come ad un’ancora di salvezza, in una sorta di “nuovo umanesimo” che riconosce nella ricerca scientifica un grande valore, ma non supremo. La necessità di scrivere per ritrovarsi torna a galla insieme ai mille risvolti imprevisti che le sconvolgono la quotidianità, nonostante l’amorevolezza dei figli e del marito. Nascono nuovi incontri, emergono nuove scoperte, sorgono straordinarie amicizie. Storia di Maricia, un medico che si scopre paziente è il sottotitolo di Mutazioni (Lindau, 2021) in cui la protagonista di questa storia di resistenza umana si racconta in prima persona, senza pudori, senza pietismi. Fabio Cavallari, che ne ha raccolto la testimonianza – a volte delicata, a volte dura, sempre autentica – ci regala così un nuovo gioiello, a metà strada fra giornalismo e narrativa, che aggiunge alla sua corposa bibliografia di libri controcorrente perché capaci di regalare squarci di inaudita bellezza frammezzo al dolore crudo delle malattie. 

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