Ricordo le parole del poeta nigeriano Niyi Osundare quando lo intervistai alcuni anni fa. “Mentre noi ci facciamo la guerra, i nostri linguaggi trattano la pace alle nostre spalle”. Osundare le pronunciò con la sua voce profonda alla fine dell’intervista come suggello a un’ora di conversazione intensa tra uno scrittore italiano, io, e un poeta nigeriano. Io bianco lui nero. Io europeo lui africano. Durante la conversazione i nostri linguaggi avevano costruito un ponte tra le nostre culture sui cui transitò il rapido della poesia. Alla fine dell’intervista ci salutammo come due vecchi amici. La poesia aveva compiuto il miracolo di sbriciolare gli orpelli culturali che ingombrano il passaggio tra due mondi diversi per far incontrare due esseri umani.
Tutto questo mi è ritornato in mente quando ho letto della penosa vicenda sulla traduzione delle poesie di Amanda Gorman. La Gorman è una poetessa afroamericana attivista impegnata sul fronte dell’antirazzismo su posizioni analoghe a quelle dei Black lives matter. Il suo poema The Hill We Climb, la montagna che scaliamo, letto da lei durante l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, è conteso da tutte le case editrici europee più à la page che ne vogliono fortissimamente pubblicare la traduzione.
E qui iniziano i guai. La scrittrice olandese Marieke Lucas Rijneveld scelta per la traduzione delle poesie di Amanda Gorman per conto della casa editrice Meulenhoff, ha rinunciato. Sebbene fosse donna e pure simpatizzante del movimento Black lives matter, non era nera. Su questo punto l’editore americano che detiene i diritti aveva dichiarato, in coerenza con l’ideologia del movimento, che la traduttrice doveva essere donna, attivista, giovane e soprattutto nera. Quattro discriminazioni in una frase sola: di sesso, età colore e inclinazione politica ma nessuno ha fiatato. Al contrario, la stessa Rijneveld appena ha subodorato il vento contrario che tirava sui social si è tirata indietro recitando il mea culpa per quel maldestro tentativo di appropriazione culturale.
Secondo round. Al traduttore Victor Obiols era stata assegnata l’edizione catalana di The Hill We Climb per conto della casa editrice di Barcellona Univers. Gli strali dell’identitarismo nero si sono abbattuti anche sul traduttore di Barcellona, che oltre a non essere nero ha l’aggravante di essere un maschio. A nulla valgono le sue referenze, Obiols ha tradotto Shakespeare pur non essendo un lord inglese del XVI secolo e perfino Omero, nonostante non risulti che fosse imbarcato sulle navi di Agamennone.
I simpatizzanti di Black lives matter sostengono che sia necessario che l’uomo bianco faccia un passo indietro dal proprio privilegio perché questo è il primo passo per cambiare le cose ed è esattamente quello che scrive la Gorman nelle sue poesie. Quindi la traduzione non la può fare l’uomo bianco e nemmeno la donna bianca ma va affidata a una persona della stessa stirpe della poetessa afroamericana.
Se questa è la loro tesi si vede subito che essa non c’entra nulla con l’arte, la poesia e le competenze letterarie che per fortuna non hanno colore, sesso o età. C’entra invece, e molto, con un dispositivo ideologico fondato sull’appartenenza razziale. Tutto, dicono gli identitaristi, è conflitto, rapporti di forza, lotta per il potere e in questa guerra civile planetaria tra gruppi etnici, culturali, religiosi o di genere, l’arte e la poesia sono solo delle caselle da occupare. Tutti i movimenti estremisti, fascisti o comunisti, pensano in questo modo. Tutte le dittature sono state erette da persone con questa impostazione mentale. Il tipo di persona che mette il tritolo sotto ai ponti costruiti dai linguaggi per far saltare in aria il rapido della poesia che punta all’incontro con il diverso. La conseguenza logica di questa ideologia sarà la creazione di un regime di apartheid delle arti divise rigorosamente secondo i gruppi etnici, razziali, di genere, religiosi e di età. Ad ognuno il suo genere, ad ognuno il suo pubblico. In altre parole, la fine dell’arte.
Il poeta si distingue dal banale agit-prop perché, comunicando con il suo profondo, comunica con il profondo di tutti gli esseri umani. Non vuole persuadere ma svelare. Un poeta africano ha parecchio da dire a un ascoltatore europeo, sudamericano o asiatico perché immergendosi nel profondo della sua anima, lì, nel fondo della sua essenza trova l’umanità intera. Naturalmente vale anche l’inverso ed è per questo che i poeti vengono tradotti dai tempi di Omero.
I primi versi di una poesia di Vladimir Majakovskij fanno così:
A voi, / baritoni ben nutriti, / che dai tempi di Adamo / ai giorni nostri / squassate gli stambugi chiamati teatri / con le arie dei Romei e delle Giuliette.
A voi, / pittori, / ingrassati come cavalli, / divorante e annitrente decoro di Russia, / che, intanati nel fondo degli studi, / tinteggiate all’antica con sangue di drago / fiorellini e corpi.
Per tradurli dal russo occorre per forza essere una guardia rossa in lotta contro la borghesia o basta essere un semplice traduttore possibilmente bravo, importa assai se bianco o nero uomo o donna, giovane o anziano, ateo o credente?
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