Per i comunisti, saliti al potere in Cecoslovacchia nel febbraio del 1948, non poteva esistere nessun credo religioso che non fosse il marxismo-leninismo. Men che meno era tollerabile un credo religioso il cui capo riconosciuto era di fatto il leader di una nazione straniera. E quindi nel mezzo di una generica ondata persecutoria anti-cristiana i cattolici si trovarono in una posizione doppiamente compromessa: non solo venivano visti come elementi interni ostili, ma anche come potenziali agenti sovversivi di una potenza straniera.
E così nel luglio del 1951 il quasi ventisettenne Silvo (come lo hanno sempre chiamato gli amici) fu arrestato mentre svolgeva il servizio militare. I ricordi di quel periodo sono particolarmente duri: dai vari racconti che ne fece lo stesso Krčméry si ha l’impressione che abbia vissuto la sua “Notte oscura dell’anima” affrontando apertamente le proprie paure e la propria disperazione davanti allo shock del male di cui furono capaci i suoi carcerieri. Silvo veniva picchiato brutalmente durante gli interrogatori. Sbattuto con la testa contro il muro. Strangolato, fino a quasi fargli perdere i sensi. A volte veniva spinto con la testa dentro un secchio riempito con le feci delle latrine. Ma tutto questo era inutile, perché Krčméry era determinato a non firmare nessuna delle confessioni che gli venivano preparate dai carcerieri. Ricondotto in cella, dove in inverno il freddo era rigidissimo, Silvo si rifugiava nella preghiera. Dei 35 mesi di prigione, senza essere ancora processato, Krčméry ne passò ben 14 in isolamento. Lontano da qualunque rapporto umano, torturato nel fisico e nell’anima, costretto a lunghi periodi di veglia e fino a cinquanta ore consecutive senza la possibilità di sedersi o appoggiarsi alle pareti della propria cella, Silvester pregava. Per sé, per i suoi cari, e per i suoi carcerieri. Quando non era in isolamento, cercava di essere di aiuto agli altri prigionieri, anche solo con una breve preghiera o una parola di incoraggiamento.
Nel libro delle sue memorie Pravdou Proti Moci (“Con la Verità contro il Potere”) Krčméry, tra tanti altri episodi, racconta anche di due incontri con esponenti del regime che erano stati imprigionati perché ormai scomodi. Il primo di questi due fece commuovere Silvo, che si impegnò in prima persona per distoglierlo da pensieri autolesionisti e istinti suicidi.
L’ex maggiore della polizia segreta in cella con lui finì con il diventare fonte di ricordi felici, pur nell’oscurità della reclusione. Krčméry propose che ciascuno iniziasse a insegnare qualcosa all’altro: lingue straniere, canti popolari. In questo modo il loro tempo insieme fu ricco di significato e il maggiore Mikuláš H. trovò la forza per resistere alla depressione. Ogni sera i due passavano del tempo a raccontarsi le proprie esperienze di vita, entrando sempre più nel dettaglio. Ricorderà poi Krčméry nelle sue memorie: “In quel periodo compresi che il più grande dramma, il più interessante e il più appassionante… era ogni singola, unica e comunissima vita umana. Perché ha in sé una grande quanto insospettabile bellezza ed è interessante e ricca di insegnamenti”.
Qualche tempo dopo Silvester avrebbe sentito raccontare da un altro compagno di cella quale fosse il reale obiettivo dell’apparato di regime nei confronti della popolazione: il terrore. Citando il racconto di un alto esponente della polizia segreta da poco purgato, il compagno di cella di Krčméry raccontava: “Alcuni credono che il nostro obiettivo sia la repressione dei nostri nemici. Sicuramente c’è anche quello; ma prima di tutto ci interessava la conquista totale del potere. Se arrestassimo e liquidassimo soltanto quelli che ci avversano, tramano contro di noi, […] gli altri farebbero attenzione a evitare di compromettersi in qualsiasi maniera, per non darci motivo di intervenire contro di loro. Non è questo il nostro obiettivo principale! Noi vogliamo che anche tutti gli altri, anche gli innocenti… tremino di paura giorno e notte senza avere nessuna garanzia di sopravvivenza a questo periodo storico. […] Vogliamo essere padroni e signori assoluti. E il potere assoluto non conosce limiti. Avere tutti sotto il nostro potere richiede che ciascuno tremi di paura nell’incertezza e ricerchi il nostro favore; che ciascuno che voglia salvarsi ci informi di qualsiasi segno di avversione o opinione diversa. In modo che tutti abbiano paura, nessuno abbia certezze e nessuno possa avere fiducia in nessuno. Per questo abbiamo sempre cercato di arrestare e liquidare anche innocenti, e perfino alcuni dei nostri compagni”.
Silvester faceva tesoro di tutte queste esperienze e quando non poteva avere il conforto di un compagno di cella, poteva sempre cercare di comunicare con gli occupanti delle celle vicine tramite codice Morse. Spesso i prigionieri si sostenevano tra loro trasmettendosi brani delle Scritture in questo modo. E Krčméry conosceva a memoria i testi della santa Messa e li trasmetteva e recitava in latino, slovacco e russo. Dalla fede prendeva la forza per rifiutare categoricamente le menzogne preparate dai suoi aguzzini. Perché alla fine una cosa gli era chiarissima: quella battaglia non era una questione di giustizia o ingiustizia. Quello per cui stava lottando era la Verità. E ai comunisti interessava sopprimerla per mantenere in vita il loro sistema, che poteva sussistere solo grazie alla menzogna.
Il 24 giugno 1953, San Giovanni Battista, ci fu la svolta: il carceriere che stava raccogliendo la dichiarazione perse la pazienza e minacciò di lanciare la macchina da scrivere in testa a Krčméry. Il motivo era ciò che Silvo gli aveva appena dettato: “Rifiuto categoricamente qualsiasi interrogatorio, perché vedo che le indagini sono senza senso. Alla Sicurezza Nazionale non importa conoscere la verità, ma solo distruggere la Chiesa”. Non si poteva più tornare indietro: un anno dopo, finalmente, si sarebbero aperte per Silvo le porte dell’aula del tribunale militare di Trenčin, che avrebbe concluso il suo periodo di “custodia cautelare” e scritto nella storia la sua clamorosa e coraggiosa arringa difensiva.
(2 – continua)