Il romanzo di Lucia Esposito Sorelle spaiate (Giunti, 2024) è un unicum nella letteratura italiana contemporanea. Ha molti piani di lettura possibili, le protagoniste maggiori e i protagonisti minori (al genere maschile spetta la parte di attore non protagonista) li incontriamo per strada, sul luogo di lavoro, in metro, sul treno, agli angoli delle strade, nelle trenta righe di una cronaca affrettata, e non li vediamo, sono invisibili ai nostri occhi. Circolano a Milano o a Napoli, a Torino o ad Albisola, a Roma o a Nord di Tirana, solcano l’Adriatico su gommoni, vengono squartate per cavargli fuori un bambino che è un batuffolo di sangue, ma noi camminiamo prigionieri dei nostri guai, chiusi nel dolore meschino di un insuccesso di carriera, di uno sgarbo subìto alla macchina del caffè, poi si muore, e ciao, capita persino che qualcuno riderà per questo, magari sarà però persino consolante, perché almeno sarà la prova che siamo stati in grado di suscitare un sentimento. Se non un’empatia magari un’antipatia, che è pur sempre un movimento sulla superficie del nulla.
Invece qui, in quest’opera prima di Esposito, impossibile difendersi con lo scudo del cinismo. Siamo travolti dalla vita interiore di due coppie di sorelle, Viola e Chiara Valente, ragazze napoletane di destini spaiati, appunto; e di Ershela (detta Margherita o sul lavoro Lulli) e Alina, albanesi traghettate in Italia. Il libro si compone di stratificazioni, ci guida nell’esplorazione della città sotterranea, dove i palazzi si sviluppano in giù, simmetrici a quelli che salgono verso l’alto. Sette, dieci piani, a volte grattacieli sì ma abissali, proiettati verso l’oscurità del male, ma quando esso si palesa come la risposta nefasta all’enigma del vivere, ancora più giù un bene profondissimo vibra, scintille imprevedibili d’amore accarezzano il volto livido dell’assassinata: il lettore si porta dietro questa memoria contraddittoria appena ha chiuso il libro, che si è fatto divorare, lentamente però. Corri e ti fermi, acceleri e rallenti, rileggi e via al galoppo. Il consiglio di Cosimo de’ Medici impresso sul suo stemma diceva “festina lente”, una frase attribuita da Svetonio ad Augusto, e che tiene insieme l’opposto. Questo romanzo è così.
Carlo Bo teorizzò negli anni trenta la “letteratura come vita”, ecco, qui ci siamo. Vuol dire che la letteratura cava dalla materia apparentemente informe di esistenze qualsiasi non la banalità dell’uomo senza qualità, ma la vibrazione dell’essere concreto, e si capisce perché Dio ha scelto di incarnarsi in questa stupida specie di essere vivente che è uomo-e-donna-li-creò, soprattutto donna direi. Perché l’“umano in noi” (Vasilij Grossman) è un niente fragilissimo, polvere e ombra, ma attraversato misteriosamente da lampi di bontà, senza alcuna ragione calcolante, ma perché sì, qualcosa in noi grida immortalità, chiede di non morire, e l’amore rende eterno anche il battito di ciglia della disgraziata puttana albanese, che dà la vita e non sa perché per il prodotto di uno stupro, che scavalca l’orrenda materialità dello sperma gettato come ganga nel suo ventre, ed è morte e resurrezione.
Io qui sto scrivendo in modo pasticciato, travaso sulla carta un vortice di esperienza, ma il racconto è tutt’altro che un groviglio. È anzi di semplicità piana nella sua trama. Corrisponde alla storia professionale e familiare delle due protagoniste principali.
Anzitutto c’è Viola, ventitré anni, appena partita da Napoli, a Milano per uno stage da giornalista in un quotidiano. Viola scrive il suo diario, si percepisce l’ambiente della redazione come una piccola giungla di presuntuosi con qualche radura di bravi ragazzi e vecchi saggi. Lo stage è gratis, perciò Viola cerca lavoretti per mantenersi, risponde ad annunci di chi cerca baby sitter, e invece il tale (l’Unto) ingaggiava hostess, ci siamo capiti. Materia di giornalismo-verità? I suoi occhi si aguzzano, vede in giro non solo le escort da hotel di lusso e manager canadesi, ma prostitute nere o troppo bianche, con le labbra rosse e gli occhi lucidi. Chi sono, perché?
Intanto, in Albania, Ershela decide di fuggire con l’uomo che le promette il paradiso in Italia, ha una sorellina, Alina, palpeggiata e violata dal patrigno. Decide di partire per riscattarla. Ogni giorno le scriverà una lettera.
Il romanzo si compone così di due romanzi che si incrociano, tenuti separati e poi congiunti intrecciandosi con caratteri diversi, un diario e un epistolario. La cosa incredibile è che questo romanzo racconta, velato di fantasia e di mascheramenti, una storia vera, giornalismo autentico in origine, che in trent’anni di riposo nel cassetto e di riscritture si è trasformato in “letteratura come vita”. Un romanzo cristiano, alcune pagine dove il male e la grazia si sfidano e hanno la forza espressiva di un Bernanos. Si aspetta l’opera seconda per capirne di più. Lucia Esposito oggi è caporedattore della cultura a Libero. Nessuno – mi dicono – che sospettasse cos’aveva nel cassetto: oro.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI