Ci sono serie tv che sostituiscono la lettura di un saggio, ce ne sono altre che invece la stimolano. Squid Game, la serie tv sudcoreana di successo planetario, fa parte della seconda categoria. Ma cosa scegliere per decodificarla? Un saggio di sociologia? Uno sul turbocapitalismo orientale? O un saggio stile Breve storia del futuro di Jacques Attali, per capire cosa ci aspetta nei prossimi decenni? O un saggio sulla psicologia infantile? Direi di tutto un po’.
Le mie due guide sono state La Forza del Capitalismo di Reiner Zitelmann (2020; brillante saggio socio-economico di un ex giovane marxista radicale, intellettuale di punta e investitore immobiliare tedesco) e il rivoluzionario contributo per analizzare il “deprimente contrasto tra la radiosa intelligenza di un bambino sano e la debolezza intellettuale dell’adulto medio”, disseminato da Freud nell’intera sua Opera. La citazione freudiana è da Il futuro di un’illusione (1927). Zitelmann costruisce il suo saggio sulla messa a confronto di sistemi socio-economici contrapposti, dedicando una parte del libro all’analisi della storia recente delle due Coree, la storia che fa da sfondo a Squid Game. I tratti salienti del capitalismo sudcoreano sono fatti emergere con immediatezza di analisi e di linguaggio, tratto che, per inciso, rende il libro abbordabile anche a studenti e a non tecnici.
Quello sudcoreano è un capitalismo di tipo famigliare, incoraggiato dallo Stato, con una fortissima vocazione alla tecnologia e al mercato globale, che affonda le sue radici in un’etica del lavoro e del massimo impegno personale di stampo confuciano. La disarticolazione tra “tempo di lavoro – o di studio – e tempo di vita” non è neppure contemplata. Scuole e università sono pressoché totalizzanti, le biblioteche sono aperte anche di notte, il concetto di ferie lavorative non si è ben radicato, gli anziani lavorano fin che possono, a prescindere dal raggiungimento dei limiti di età. Il risultato di questo mix è, appunto, una forma di turbocapitalismo grazie al quale la Sud Corea primeggia a livello mondiale tra gli Stati più sviluppati e sopravanza, in modo incomparabile, la Nord Corea per livello di libertà, benessere e cultura.
A differenza di Zitelmann, il regista di Squid Game, Hwang Dong-hyuk, punta l’obiettivo sulle contraddizioni del sistema, il divario tra le classi e la sfrenata competizione sociale. Hwang Dong-hyuk è nato a Seul, ha studiato nelle migliori università coreane e ha perfezionato i suoi studi in America. Il copione della serie lo ha scritto nel 2008, in piena crisi economica. Il dato non è irrilevante e aiuta a comprenderne l’ambientazione. La serie è completamente girata nella periferia di Seul o in spazi chiusi, dove le luci della capitale, immensa megalopoli abitata da undici milioni e mezzo di persone, cuore pulsante dell’economia sudcoreana, non riescono ad arrivare. Nella periferia sono reclutate persone disperate – allo stesso tempo vittime e carnefici – come giocatori di Squid Game, una rivisitazione sadica di alcuni giochi infantili, molto diffusi. Chi perde viene “eliminato” da chi vince, nel senso letterale del termine. La posta in gioco è la sopravvivenza e un’immensa quantità di denaro.
L’insistenza sui giochi infantili e il senso della loro rievocazione perversa viene svelata sul finire della serie dal dominus occulto del gioco. L’infanzia è un tempo felice, ma ingenuo. Un tempo a scadenza, sul quale si abbatte violentemente la scure di una realtà spietata e senza possibilità di redenzione. Dimostrare l’inesorabilità di un tale destino è lo scopo del gioco: un sadico esperimento sociale attuato per provare come l’ipercompetizione sociale, il mors tua vita mea, sia l’unica regola di vita possibile.
Congegnando e attuando freddamente l’esperimento perverso, il dominus rievoca la propria esperienza infantile, l’unica dove l’esistenza gli aveva fornito le prove di un’alternativa possibile. Grazie al gioco la sua granitica convinzione vacilla, sino a far balenare – per un attimo – nella sua mente un’altra possibilità. Quella di un’alleanza, di una partnership costruttiva, che si può istaurare con chiunque, anche tra i disperati che si incontrano sul palcoscenico perverso di Squid Game.
In un’epoca in cui l’intelligenza dei bambini è passata al setaccio con i test per la misurazione del QI (quoziente intellettivo), quasi nessuno si accorge che il primo atto della “brillante intelligenza del bambino”, messa in valore da Freud, è la capacità di costruire relazioni, di elaborarne le condizioni, e di convocarvi altri come partner a giocarvi un ruolo per la comune riuscita e soddisfazione. Rievocare tale competenza, anche se in modo ambiguo e perverso, è il merito che il regista assegna ai protagonisti principali della serie. Per Freud il perverso non è da temere, è solo “un povero diavolo”. Incapace di costruire un nuovo legame sociale può solo puntare al suo fallimento. Minaccia sempre attuale, presente in tutte le società, certo non solo in quella sudcoreana.
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