“La questione è se questa nuova tecnica renda veramente buoni o no: la bontà viene da dentro, la bontà è una scelta. Quando un uomo non ha scelta, cessa di essere uomo”. Le parole con le quali, nel film Arancia meccanica di Stanley Kubrick, il cappellano del carcere risponde al protagonista Alex (che era stato rinchiuso per rieducazione dalla violenza) si ispirano all’omonimo romanzo del 1962 dello scrittore inglese Anthony Burgess, A Clockwork Orange. Ma forse non tutti sanno che il regista Franco Zeffirelli, scomparso a Roma il 15 giugno dell’anno scorso, aveva inserito Burgess tra gli sceneggiatori del suo Gesù di Nazareth: la miniserie televisiva, uscita nel 1977, che rivoluzionava il cinema di ambito religioso, grazie alla scelta realistica zeffirelliana, destinata ad avere un eguale forse solo nel Mel Gibson di The Passion. Gli altri sceneggiatori erano Zeffirelli stesso e Giovanna Cecchi D’Amico.



Il regista fiorentino sapeva bene che la pellicola kubrickiana del 1971 si distanziava dal romanzo del 1962 al quale si ispirava (A Clockwork Orange di Anthony Burgess), proponendo una visione del mondo ammiccante al tema della liberazione sessuale e alla critica al ruolo dei padri. Complice certamente anche la stessa astrusa formulazione della domanda da parte di Alex: “Non mi importa niente dei pericoli, padre: io voglio essere buono, voglio essere per il resto della mia vita solamente un atto di bontà”.



La nozione di libertà, attorno alla quale era costruito il romanzo di Burgess, aveva invece poco a che vedere con una forma di libero arbitrio assoluto, di sapore anti–cristiano, alla Jean Paul Sartre: il nesso tra libertà e bene, che era il motivo di fondo dell’interrogativo di Alex, andava evidentemente preso nel suo letterale e cristiano auspicio a una libertà di scelta che merita di essere salvaguardata proprio perché in relazione con una libertà intesa come liberazione dal male.

Alcuni anno dopo l’uscita della pellicola di Kubrick, l’inglese Burgess acquisì fama grazie al film del regista newyorkese naturalizzato britannico (che aveva già al suo attivo 2001 Odissea nello spazio) e, quando accettò la proposta di Zeffirelli, si scoprì che era cattolico.



E contraeva anche un debito con l’iniziatore della letteratura cattolica in lingua inglese: il santo teologo e filosofo, convertito dall’anglicanesimo nel 1845, John Henry Newman, autore del romanzo autobiografico Perdita e guadagno (1848). Prova ne sia che Ian Ker, il maggiore conoscitore vivente di Newman, nella sua carrellata del 2003 sul Catholic Revival nella letteratura inglese dal 1845 al 1961 (edita dalla Notre Dame University Press e non ancora disponibile in lingua italiana), associa Burgess ai grandi nomi di quella stagione: Newman, Gerard Manley Hopkins, Hilaire Belloc, Gilbert Keith Chesterton, Graham Greene, Evelyn Waugh. Un cattolicesimo, quello di Burgess, tutto d’un pezzo, anche se certamente non alieno da tendenze manichee e da quella sorta di “sindrome da accerchiamento” tipica di diversi cattolici d’oltremanica.

Ma questo poco importò al regista fiorentino, che aveva bisogno di Burgess come aiuto fondamentale per le proprie scelte stilistiche dietro (e davanti) alla macchina da presa. Dato che il santo maestro ispiratore dello scrittore inglese scriveva, nella Grammatica dell’assenso, di essere alla ricerca di un assenso alla verità dell’esistenza di Dio “che sia più vivido di quello che si dà alle mere nozioni dell’intelletto”.