Definire George Steiner, morto novantenne pochi giorni fa, un critico letterario è limitativo, a meno di considerare la critica originata da un’ammirazione, da una gratitudine, da un “debito d’amore”, come scrisse in uno dei suoi primi libri, Tolstoj o Dostoevskij. Egli è stato uno dei più irriducibili cantori del mistero, della libertà, della spaventosa bellezza della creazione artistica, che giustamente teneva lontana da ogni forma di commento teorico. Non smise di interrogarsi sul mysterium iniquitatis, sull’abisso del bene e del male che abita in ogni uomo.



In Una certa idea dell’Europa ricordava che uno dei più famigerati lager nazisti, Buchenwald, sorse a pochissimi chilometri dal giardino della casa di Goethe, a Weimar, dove Goethe e Schiller avevano edificato le basi della moderna civiltà europea. Vi era in lui “la passione per l’assoluto”, come si intitola un altro dei suoi libri. E lo trasmetteva ai suoi alunni, come scrive in Errata: “quando un giovane è stato esposto al virus dell’assoluto, quando ha visto, udito, ‘odorato’ la febbre in coloro che sono alla ricerca della verità disinteressata, gliene rimarrà come un riverbero”.



Allora, per un insegnante, “la massima ricompensa è di attrarre studenti e di scoprire che essi sono più capaci di lui e che i loro talenti li porteranno o dovrebbero portarli al di là del punto da lui raggiunto”. Era durissimo contro coloro che semplificano o abbassano il livello degli studi, a costo di passare per un elitario. Si tratta sempre di indirizzare l’attenzione dello studente “verso quello che, all’inizio, egli non può capire, ma la cui grandezza affascinante lo afferra”. In un certo senso, “sia il pensiero sia l’amore pretendono troppo da noi. Ci umiliano. Ma l’umiliazione, persino la disperazione davanti alla difficoltà – abbiamo sudato tutta la notte eppure l’equazione rimane irrisolta, la frase greca incompresa – possono trovare l’illuminazione all’alba”. Steiner ricorda che alla prima lettura di Essere e tempo di Heidegger, a cui dedicò un altro, bellissimo libro, non riuscì a capire nemmeno la frase più breve; eppure lo attrasse “il vortice, l’intuizione indelebile di un mondo che mi era profondamente nuovo” e questo lo spinse a ritentare. Ciò che ci muove è sempre un fascino, un amore, sebbene appena intravisto, ma certo.



Ma è in Vere presenze che il grande scrittore ci rivolge la sua parola più chiara. Qui l’ebreo agnostico, o “anarchico platonico”, come amava definirsi, mette in scena il suo faccia a faccia con il Mistero, attingendo il concetto di “vera presenza” dalla dottrina cattolica dell’Eucarestia. La libertà dell’uomo è sovrana, è “il maggior dono” che Dio ci abbia fatto, come afferma Dante nel Purgatorio; ma la libertà è relazione e, “in un certo senso, ci vogliono due libertà per crearne una”. Laddove si incontrano due libertà, quella dell’autore e quella del lettore, l’atteggiamento della cortesia è fondamentale, ed anzi costitutivo della vera filologia.

Cortesia, ospitalità, umiltà, accoglienza della parola dell’altro rimandano ad una sfera religiosa. “Siamo gli ospiti, non i creatori o i padroni della nostra vita”, ripeteva. Riconosciamo in noi “un imperativo di interrogazione” che ci definisce e che ci porta “molto vicino al trascendente. La poesia, l’arte e la musica sono i mezzi di questo avvicinamento”. La bellezza ci viene incontro come qualcosa di gratuito e di necessario, come una soddisfazione a bisogni che non conoscevamo. “Aspettavamo qualcosa e non sapevamo che esistesse, che ci potesse completare”. Ogni vera lettura è un incontro con l’altro da sé: “agli studenti bisogna dire di non leggere le critiche, ma di leggere i testi”. 

Presentando Vere presenze, diceva che il libro non era altro che un “grido d’orrore per ciò che accade nel mondo universitario. I miei studenti a Cambridge hanno un esame in cui discutono l’opinione di T.S. Eliot su Dante senza dover leggere Dante, un solo verso di Dante. Quello che ci vuole è un’interpretazione dinamica, un’interpretazione che sia azione e non passività. Leggere la critica, leggere i testi ‘secondari’, significa essere passivi, come davanti alla televisione; significa rinunciare alla responsabilità dell’azione. Al centro della mia posizione c’è una cosa estremamente semplice e chiara. È un sonetto di Rilke, quello al torso antico di Apollo, in cui lui dice ‘Cambia la tua vita’. Una lettura seria e profonda cambia la mia vita; è un incontro con una apparizione imprevista, come un incontro all’angolo della strada con l’amante, con l’amico, con il nemico mortale”.

Fino alla fine, conservò uno struggimento per il destino dei giovani. In un discorso tenuto a Roma per il conferimento di una laurea honoris causa si rivolse a loro con queste parole: “Avere una vocazione, una passione, è una felicità pericolosa ma senza fine; è la più grande fortuna che si possa avere al mondo. Il grande artista, il grande atleta, e anche noi che non siamo artisti, conosciamo questa sete d’assoluto, la sete che ci divora. Il primo consiglio è: vivete le vostre passioni”.