Esistono storie che sembrano destinate a raccontare in maniera inesorabile la caducità umana. A suscitare in coloro che vi si imbattono l’indignazione di non potersi opporre ad un fato profondamente ingiusto. A lasciarti interdetto e spiritualmente errante mentre tenti di conferire un senso accettabile all’esistenza della sofferenza. Quella di una mamma di tre figli, spenta lentamente e dolorosamente alla soglia dei 50 anni da una metastasi ossea al quarto stadio, non fa apparentemente eccezione.



Eppure il libro di Mario Tamburino Storia di Margherita. La felicità non passa sempre dal miracolo (Edizioni San Paolo, 2020) delle tue convinzioni si fa bonariamente beffa. Perché ciò che sembra sotteso al precipizio della fine si rivela essere, in realtà, l’inizio di una meraviglia inaspettata e a tratti inspiegabile. Perché lettore e autore si ritrovano inconsapevolmente uniti e incuriositi nel constatare che ci sono cuori a prova di tenebre. Invincibili baluardi di conforto e di speranza. Tracce indelebili di un istinto più forte della morte, che, da Milano, giungono fino alla ridente Sicilia che l’aveva accolta.



«Margherita Ruberto continua a vivere in chi l’ha incontrata». È questo uno dei leit-motiv dell’intera vicenda. Una sentenza che, con il procedere del racconto, si fa sempre più granitica. Un’evidenza scevra da ogni superficialità retorica, ammantata piuttosto di una concretezza travolgente. Non soltanto per la viva voce che emerge dalla trascrizione dei Whatsapp e delle e-mail spedite dalla nostra protagonista fino agli ultimi, fatidici momenti del 2016, ma anche e soprattutto per le testimonianze degli amici e dei parenti che l’hanno assistita. O che, per meglio dire, da lei sono stati accuditi persino quando risultava materialmente, fisicamente, moralmente impossibile.



Di Margherita, infatti, resta la calda e scrosciante risata capace di sciogliere malinconie e tensioni. Un amore seminato con cura ed abbondanza nella certezza che avrebbe dato frutto. Una fede incrollabile e aggrappata strenuamente alle sporgenze della Croce. Quella con Dio non è semplicemente una vicinanza liturgica, bensì una radicale confidenza, un’intima e schietta conversazione, all’interno della quale la latente sensazione di essere stata abbandonata finisce sempre per convergere nella consapevolezza che il bene, talvolta, ha un volto che non ci saremmo aspettati e che è nostro compito svelare a noi stessi e al prossimo. “Non ho dubbi, – scrive all’amico Marco pochi mesi prima della sua scomparsa – ciò che ci accade è per la nostra conversione. Quindi ci porta a Lui… la sofferenza è un trampolino di lancio verso Cristo”. Un incontro. A questa piacevole responsabilità ci chiama la parabola terrena di Margherita. Certamente con quel Dio che l’ha accompagnata fin dalle esperienze giovanili tra le fila di Cl nel quartiere Corvetto di Milano e poi nel trasferimento a Fiumefreddo, nel catanese. Ma anche con le paure che ci impediscono di apprezzare la ricchezza del nostro vivere.

Margherita osa essere felice. A dispetto della propria autosufficienza che svanisce giorno dopo giorno e di una malattia respiratoria che si abbatte anche sul marito Giancarlo, oltretutto già in cassa integrazione. A dispetto delle circostanze, insomma, che la autorizzerebbero a gettare la spugna e che invece si tramutano in un’irripetibile occasione di pienezza. È tra un controllo in ospedale e l’altro che amicizie recenti e di vecchia data si consolidano nella condivisione di un malessere fisico, o semplicemente di una preghiera. È nella progressiva difficoltà di spostamento che ogni evento, ad esempio il lungo e commosso abbraccio dei suoi “sicomorini” giunti alla comunione dopo il percorso di catechesi compiuto insieme, assurge a dono di inestimabile valore. È nell’hic et nunc, in definitiva, che l’eterno dipana il suo affascinante mistero e che il paradosso diventa armonia tra sé e quell’Amore che allevia il peso delle intemperie. Nella memoria di chi le è stato accanto – e in quella dell’autore che con passione ha ripercorso la vicenda interpellando tutti i principali testimoni della sua singolarità – non domina la malinconia della perdita: piuttosto, l’ammirazione per una forza d’animo mai doma, un sincero desiderio di emulazione, la permanente certezza che Margherita avesse ragione a sostenere che al nostro esserci è data la possibilità di attingere al più alto grado di perfezione pur, e a maggior ragione, nelle ristrettezze.

Come riconoscere, allora, un miracolo, quando non ha l’aspetto di una guarigione? Dalla qualità del tempo che intercorre nella sua comunque non vuota attesa. Dagli amici che si sobbarcano un migliaio di chilometri per stringerle la mano e restituirle un po’ di quel calore che gratuitamente Margherita aveva insegnato ad offrire. Dalla gioia straripante e spiazzante con cui ha gridato al mondo che non è la malattia a definire chi siamo e quanto valiamo, ma la maniera in cui, fissandola negli occhi, la impreziosiamo. La scelta di dare e di darsi senza alcuna esitazione.

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