Susanna Tamaro è un’autrice a tutto tondo, delle sue opere e delle sue idee. Senza timori reverenziali tra febbraio e marzo si è messa in cattedra, parlando con autorevolezza di “disforia di genere”. All’argomento ha dedicato un magistrale articolo per Il Corriere della Sera (11 febbraio 2024), a cui è seguita l’intervista di Maria Elena Barnabi per la rivista Gente (2024, n.10)
La cattedra Tamaro se l’è fatta da sé, costruendola con quasi mezzo secolo di lavoro di scrittrice e mettendo a frutto la sua esperienza, tutt’altro che semplice, di “un’infanzia devastata dalla disforia di genere”. Considerato che Tamaro data il suo tormento all’età di 3 anni, circa sessant’anni fa, quel che le accadeva non aveva nome, né lei bambina glielo avrebbe saputo dare. In qualche misura era un disagio indicibile, quindi più acuto. Ma, col senno del poi, meglio l’incertezza che una diagnosi frettolosa. Il riferimento al genere, fino a qualche decennio fa, ha avuto senso compiuto solo in grammatica, mentre per qualificare una persona il sostantivo d’elezione era senza dubbio indicato dalla parola: sesso. Praticamente sconosciuto era il termine disforia, d’altronde anche oggi lo si usa per lo più come un “significante”, presupponendone il senso.
La lingua che si parla è decisiva per orientarsi nella propria esistenza individuale, e non è senza peso osservare che la lingua è pure un apparato del gusto. Vediamo allora che sapore ha la parola disforia. Attenzione, perché il sapore è amaro. Disforia è il contrario di euforia, due termini che si applicano all’umore instabile, indagato dai clinici come sintomo di un malessere fisico o psichico (o entrambi). Se l’euforia è sintomo di una accentuata percezione di benessere la cui origine non è chiara, tanto da apparire artificiale e sospetta, la disforia al contrario indica uno stato di scoramento, irritazione, senso di sconfitta e risentimento personale, la cui origine, parimenti agli stati di euforia, risulta da indagare.
Sin dall’antichità le sofferenze psichiche sono state valutate come maggiori delle sofferenze fisiche, a tal punto che certe filosofie (direi quasi tutte) nascono come medicine dell’anima. Considerati i malanni del corpo più sopportabili di quelli psichici, si comprende che può non essere così diseconomico somatizzare. Somatizzando, il soggetto ottiene un senso di sollievo perché una volta localizzata, l’angoscia diviene meno pervasiva e più tollerabile: è il fenomeno che Freud chiama “beneficio secondario” della patologia. Il disagio è spostato sul corpo, e ciò sta alla radice del rammarico filosofico fondamentale: quello di esser nati, finiti in un corpo, il quale è sbagliato come tale, non perché di un sesso o di un altro. L’attuale disforia, delusione, disamore, disagio di sentirsi nel corpo sbagliato è una variante di quella antica, anche se appare nelle vesti sgargianti del cosiddetto “postmoderno”.
Tra i primi ricordi che Susanna Tamaro annota vi è la richiesta al fratello maggiore di essere chiamata/o Carlo, e di aver trovato conforto nella sua assenza di obiezione. Ricorda di detestare giochi e abiti femminili, e con gratitudine rievoca la genialità della nonna, che avendo intuito più di qualcosa, le regalò per carnevale un vestito da ufficiale, che Susanna, pro tempore Carlo, non tolse più sino alla sua completa consunzione.
A supportare il sentimento della scrittrice di sentirsi fuori posto in ogni ambito socialmente considerato “femminile”, contribuì la sua scarsa capacità di sintonizzarsi coi sentimenti altrui, caratteristica che interpretò come il prevalere in lei di una modalità di pensiero maschile. L’insieme di questo impasto di esperienze, pensieri, sensazioni, sentimenti e affetti durò un’eternità: dalla sua infanzia alla pubertà. Ma, a un certo punto, questo incantesimo finì: “le atroci sofferenze della disforia di genere si sono dissolte come un fantasma alle prime luci dell’alba”. “E poi, al primo anno delle superiori, ho fatto una scoperta incredibile: esistevano i maschi e sembravano estremamente interessanti. (…). Sarebbero stati anche loro interessati a me?”.
È dalla cattedra della sua personale esperienza ricapitolata grazie a una lunga e accor(a)ta riflessione, che Tamaro può affermare, senza paura, che “la storia giudicherà i cambiamenti di sesso imposti a bambini e ragazzi come un crimine”. “Da molti anni, prosegue la scrittrice, ormai mi chiedo (…) cosa ne sarebbe stato di me, a sette, otto, nove anni, se fossi stata presa sotto l’ala prorettrice dei falchi del gender? Mi avrebbero convinto della liceità delle mie inquietudini, come nella più cupa delle fiabe, con il sorriso suadente di chi in realtà è un orco, mi avrebbero rassicurato (…) di dissolvere il dardo infuocato che da sempre feriva il mio cuore”. Trovare la propria strada crescendo può non essere semplice, a volte drammatico. L’esperienza è ricca di luci, ma anche di ombre, e certamente aiuta entrare in rapporto con persone come Tamaro, che abbiano costruito dentro di sé una dimensione del tempo paziente, senza scadenze, e sappiano fare memoria degli aiuti ricevuti e accolti.
Prendendo posizione, Tamaro non si limita a una critica, ma indica dei modelli di condotta: il fratello maggiore e la nonna, così come l’impresa relazionale di Angelina Jolie e Brad Pitt con la loro figlia, “che da bambina voleva essere chiamata John e che ora è diventata l’affascinante Shiloh”. Esempi emblematici che Tamaro mette giustamente in risalto, a beneficio di chi, pur in mezzo a una cultura chiassosa e assordante, desidera ancora ascoltare e costruire con pazienza una cattedra in proprio.
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