“Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?”. Il titolo del prossimo Meeting di Rimini mi sembra una buona strada per interrogarci sul ruolo della cultura cattolica oggi. “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono”, scriveva San Paolo (1te 5,21). Abbiamo esempi che ci mostrano anzitutto che la cultura, come la carità e la missione, è una dimensione dell’esperienza cristiana, non conseguenza seconda dell’essere cristiano, né strumento per annunciare Cristo, ma manifestazione umana dell’avvenimento di Cristo nella propria vita. La cultura è perciò espressione di una rinnovata passione per l’uomo, per sé stessi e per gli altri, di un modo di essere nel mondo e perciò di relazionarsi col mondo.



La recente mostra del Meeting di Rimini su Takashi e Midori Nagai, che il Centro culturale della Svizzera italiana con il patrocinio dell’Università della Svizzera italiana ha allestito a Lugano (prima in Università, poi presso la Scuola media Parsifal, gestita dalla Fondazione San Benedetto), è stata uno di questi esempi, per diversi aspetti.



Ci ha colpito la forza dell’Annuncio del cristianesimo da parte dei primi gesuiti in Giappone, nella seconda metà del Cinquecento, e l’intelligenza della loro missione. Un’opera culturale grandiosa, attuata attraverso l’immersione totale nella cultura e nella civiltà giapponesi. Il Valignano (1539-1606) baserà l’azione missionaria sul “metodo dell’accomodamento” con cui sottolinea la non necessità di portare dall’Occidente altro che il Vangelo, le scienze e l’arte, mentre non occorre importare la cultura europea (che non vuol dire che non bisogna conoscerla, anzi, è necessaria per incontrare quella degli altri).



Takashi e Midori sono cristiani e profondamente giapponesi. Questa integralità ha abbracciato anche noi promotori: nelle visite guidate parlare di Takashi e Midori è diventato occasione per comunicare la nostra stessa umanità e per rendere partecipi di questo gesto anche i visitatori (in gran parte, possiamo supporre, non praticanti o forse anche non cristiani, soprattutto in università).

Alcuni asiatici che non conoscevano Nagai erano colpiti da alcune scritture giapponesi riportate sui pannelli e questo è stato motivo per loro per fare domande. Un ragazzo cinese davanti alla scritta in caratteri giapponesi “sia la pace” si è bloccato dicendomi, quasi commosso, che riusciva a capirla, pur non essendo propriamente la sua lingua. Un dettaglio che mi ha fatto pensare quanto sia importante essere aperti alla lingua dell’altro, fosse anche quella di coloro che oggi non credono che ci sia ancora una speranza per vivere e per i quali sembra che si sia spento il dinamismo vivente, la domanda di “ciò che non muore mai”.

La stessa presenza della mostra in università, in un punto di grande passaggio, e l’incontro di apertura nell’aula magna, affollatissimo, ha messo in luce questa necessità di cercare l’essenziale per vivere un’esperienza di incontro integrale. Anche le richieste ai responsabili accademici per realizzare la mostra e gli inviti personali ci hanno obbligati a non farci portatori passivi della proposta ma a metterci in gioco per incontrare i nostri interlocutori. Una giovane videomaker dell’università che stava filmando per il suo lavoro nello spazio della mostra, quando ormai stavamo smontandola, ha voluto sapere di che cosa si trattasse e voleva sapere dove sarebbe stata allestita nuovamente dopo la tappa luganese. Diversi visitatori come questa ragazza volevano portarci degli amici. Insomma, abbiamo bisogno di poter guardare a un futuro di speranza.

Il sottotitolo dell’autobiografia di Nagai, Ciò che non muore mai. Il cammino di un uomo, che ritroviamo come impostazione della mostra, ha favorito il coinvolgimento di tutti (a cominciare dalle nostre guide e, in modo particolarmente significativo, dei ragazzi del CLU, ma anche dei ragazzi delle medie della Parsifal, degli insegnanti e dei loro genitori). Non è stata un’occasione per consegnare un’immagine statica di conversione, seppure di un uomo eccezionale che è diventato un segno vivo di pace per tutti, ma condividere un percorso di ricerca verso la verità e il cambiamento di sé. La passione di Nagai per la scienza e la sua esigenza di verifica di ogni dato è stata un altro elemento di interesse. Per dire che in un’azione culturale tutto ciò che appassiona l’umano conta. Questa dimensione umana accomuna tutti ed espone tutti al rischio della libertà: al giudizio su ciò per cui vale la pena vivere.

Come poi non pensare al viaggio in Giappone di Giussani e al suo primo incontro con i monaci buddisti del monte Koya? Un incontro che si fonda sul desiderio dell’uomo, che ognuno si porta dentro il cuore e perciò riguarda tutti. Giussani ci mostra una strada: l’incontro nasce da una curiosità umana e si esprime come atto di amicizia; perciò, per riprendere le parole di Giussani riportate da Savorana, “ci costringe ad approfondire la nostra idea originale e a, eventualmente, mutarne l’espressione per una fraternità maggiore”. La cultura è sempre amicizia e fraternità.

Nell’attività di un centro culturale la comunicazione di esperienze di umanità è un compito primario, nella disponibilità e direi con il desiderio di interagire con l’altro. Parlare una lingua che potenzialmente non sia rivolta a tutti è ideologico e autoreferenziale. Ritagliarsi spazi di difesa delle proprie convinzioni – la propria comfort-zone devozionale – nella prospettiva, per intenderci, dell’“Opzione Benedetto” soffoca le stesse convinzioni. Sappiamo poi che la tradizione non può vivere che nel presente.

La comunicazione culturale è sempre comunicazione di esperienza. E la condivisione avviene perché c’è una domanda (di bellezza, di bontà, di verità, di affezione, ecc.) che dobbiamo aiutarci a scoprire e che è sempre meno evidente. Una domanda che va perciò riabilitata in un’epoca che sembra rimuoverla anzitutto per paura. Senza questa domanda e questa tensione anche l’educazione, la più grande sfida per l’uomo (e l’impegno culturale che ne deriva) non avrebbe futuro.

Mi sembra importante che la comunicazione debba essere fondata su una verità e risultare percepibile, tendenzialmente a tutti. Ho visto che alcuni centri culturali dell’Associazione Italiana Centri Culturali (AIC) hanno proposto figure e testi di scrittori citati da Giussani ne Le mie letture o il suo commento a Leopardi in Cara beltà. Mi sembra una prospettiva interessante, non per mostrare la “nostra” interpretazione di questi scrittori, ma per capire come un uomo come Giussani abbia svolto un lavoro di confronto aperto con loro.

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