In questi giorni di pandemia di coronavirus sono andata a rileggermi un’altra grande storia di contagio e di paura, la peste di Manzoni. Non alla ricerca di un commento letterario a ciò che stiamo vivendo. Piuttosto alla ricerca di una testimonianza. Ho sempre sentito la “poesia” manzoniana come capacità di rivelare il Mistero che abita la realtà. E volevo, proprio in questo momento, intercettare quella “rivelazione”. Cercavo il racconto di una peste che avesse dentro quel fattore in più che la rende vivibile. Ho incontrato innanzitutto una stima per la realtà che trasuda in ogni respiro di quella prosa pacata, puntuale, analitica ma non monotona, dove ogni particolare è amato prima che essere descritto. Una intera pagina dedicata a quella “sua” vigna che Renzo ritrova tornando al paese dopo il passaggio della peste, “povera vigna”, ridotta a “un guazzabuglio di steli… una marmaglia di piante… dove il rovo era per tutto”. Ogni fiore, ogni ramo, ogni piccolo dettaglio di quella vegetazione è chiamato per nome! E non è l’erudizione del botanico, ma l’affetto di chi aveva tirato su quella vigna con ben altri progetti che vederla ora in quello stato!
Sì, perché tra la fine del 1629 e l’inizio dell’anno successivo nel Milanese si era diffusa la peste. Nell’incredulità e nell’ignoranza generali nessuno all’inizio aveva voluto credere che si trattasse proprio di peste e quando fu inevitabile arrendersi all’evidenza si rifiutò l’idea che fosse una malattia (da affrontarsi come tale) preferendo pensare agli “untori”, a unguenti venefici sparsi non si sa per quale motivo. Questa menzogna condivisa fece nascere nel popolo la collera e alla collera “piace più di attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa fare le sue vendette” piuttosto che riconoscere una causa oggettiva.
Si potrebbe, commenta Manzoni, evitare tutto questo, “prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare”. Ma così non fu. E anche la ragione, quella capacità di rendersi conto della realtà, di aderire ad essa e di affermarla nella totalità dei suoi fattori, come tanti di noi hanno imparato da don Giussani, faceva fatica a farsi largo: “il povero senno umano cozzava co’ fantasmi creati da sé”, “il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”.
Ma allora come oggi, “in mezzo allo stordimento generale, all’indifferenza per gli altri”, spuntarono le testimonianze di carità, di chi nella fuga generale restava con coraggio al proprio posto, di quelli che solo per pietà sostennero ciò “a cui non erano chiamati per impiego”, fino agli ecclesiastici che “prestavano ogni servizio che richiedessero le circostanze”. Tra stima della realtà, domanda di ragione e testimonianze di carità si snoda quella “rivelazione” del Mistero che andavo cercando nelle pagine del romanzo. Una pestilenza orribile quella del Manzoni, lontana anni luce dalla nostra, in condizioni sociali igieniche e sanitarie per noi inimmaginabili, i cadaveri sparsi nelle strade, cenci e lenzuoli lanciati dalle finestre, case serrate o spalancate quando ormai l’ultimo morto era stato portato via. Un dramma raccontato con la coscienza che i “guai, quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore”. È questa certezza che può dare occhi per guardare la realtà, intelligenza per capirla, coraggio per affrontarla anche nel rischio. Mai come in questi giorni abbiamo un disperato bisogno di sperare, lo gridiamo dai balconi, lo postiamo nei social, aspettiamo ogni segnale, ogni numero che possa rendere concreta questa speranza. È così umano e vero questo bisogno di dire che “tutto andrà bene”, che ci lasciamo colpire anche da fatti o particolari che in altri tempi non avremmo degnato di attenzione. Un esempio.
Il Tg3 delle ore 14 di domenica 15 marzo, edizione Emilia-Romagna ha dedicato un servizio al comune di Brescello, la patria del celebre don Camillo di Guareschi. L’attuale parroco don Evandro, proprio domenica, ha esposto davanti alla Chiesa, chiusa secondo le prescrizioni, lo storico Crocifisso, quello cui la comunità di don Camillo si era affidata ai tempi della tragica alluvione del ’51. “Oggi – recitava il servizio – quel Crocifisso vigila dalla Chiesa la sua popolazione e noi che diciamo che tutto andrà bene diamo credito alle parole di don Camillo”. Il servizio si chiudeva con la famosa sequenza nella quale don Camillo, dalla sua chiesa già invasa dalle acque, accompagna i parrocchiani che stanno mettendosi in salvo con parole di speranza “le acque si ritireranno e il sole tornerà a splendere , allora ci ricorderemo della fratellanza che ci ha unito in queste ore terribili”.
Anche noi oggi non possiamo rinunciare a sperare che tutto andrà bene, ma abbiamo disperatamente bisogno che un don Camillo ce lo testimoni, che sia lì in quella Chiesa allagata a sperimentare e gridare la certezza per tutti.