Due lavori di assoluto interesse hanno contribuito contemporaneamente ad accendere i riflettori sulla condizione giovanile nel Mezzogiorno. Il primo è il bel libro di Isaia Sales Teneri Assassini. Il mondo delle baby gang a Napoli (Marotta&Cafiero, 2011) dedicato al fenomeno del protagonismo giovanile nella riorganizzazione della camorra nel napoletano. Il secondo è rappresentato dalla corposa ricerca (9 mesi di lavoro, 64 interviste) promossa dalla Commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana, presieduta da Claudio Fava, sulla condizione minorile e la dispersione scolastica in Sicilia.



Quello che unisce le due analisi è la constatazione di quanto poco si faccia per affrontare l’annosa questione rappresentata da quella fetta rilevante di gioventù meridionale che vive ai margini della società. È una fetta assai vasta, che rifiuta ogni prospettiva di integrazione e che sempre più si identifica con la “scelta criminale” non solo per garantirsi una prospettiva economica, ma addirittura come scelta di vita, consapevole, l’unica in grado di garantire un percorso “meritocratico” di successo e di emancipazione.



I dati coincidono, a cominciare da quelli relativi all’evasione scolastica: a Napoli come in Sicilia circa il 20% dei ragazzi abbandona la scuola abbastanza presto e l’azione di “recupero” dello Stato è praticamente inesistente. Non solo il numero degli addetti (assistenti sociali, personale dedicato nelle scuole, numero di operatori coinvolti nel sistema giudiziario) è talmente scarso che ci sarebbe da meravigliarsi se si ottenessero risultati diversi. Ma è proprio il “sistema” delle istituzioni preposte che sembra assuefatto alla situazione, pronto ad accettare la realtà attuale come un dato di fatto immodificabile. Colpisce ad esempio, come racconta nelle sue cronache dalla Sicilia Giuseppe di Fazio, il valore che a Catania viene dato alla decisione di collegare l’erogazione del reddito di cittadinanza all’obbligo di mandare i propri figli a scuola. Una decisione disperata, a cui ci si affida sperando in qualche risultato.



Sales cerca di ricostruire le ragioni di questa specificità meridionale approfondendo la situazione napoletana. Napoli è da secoli una grande città, una storia in comune con Londra e Parigi. Ma le trasformazioni che hanno interessato le due capitali europee hanno solo scalfito l’ex capitale del Regno delle Due Sicilie. Interessante, ad esempio, la ricostruzione di quanto accaduto nella seconda metà del secolo scorso in uno dei pochi quartieri operai della città, quello di Bagnoli, da cui la camorra è stata praticamente espulsa fino alla chiusura dello stabilimento siderurgico. Così come rappresenta un caso unico il permanere di un diffuso sottoproletariato nel centro storico, un insolito esempio di “periferia” collocata nel cuore della città.

La tesi esposta dallo studioso salernitano è parzialmente diversa da suoi precedenti lavori. Sales definisce la nuova camorra giovanile – tanto per capirci quella che identifichiamo nelle “stese” – un fenomeno di gangerismo sociale, qualcosa che va ormai oltre il fenomeno criminale tradizionale. Le bande giovanili rappresentano un mondo chiuso che non solo non è interessato all’integrazione con altri settori della società, ma che si comporta come una setta autosufficiente.

Cosa sono le “stese” se non proprio la manifestazione plastica di questo modo di vedere il resto del mondo? Sales le descrive così: “arrivano in gruppo con i motorini, come per una sfilata militare e cominciano a sparare all’impazzata (con armi modernissime) contro finestre, vetri, balconi, auto, negozi, fino a costringere le persone a stendersi per ripararsi e non farsi colpire”. Una tecnica paramilitare, un evidente bisogno di manifestare la propria forza, un modo di dire che non c’è limite all’uso della violenza.

Sales, dopo anni e anni spesi nel cercare di evitare che si affermasse un’analisi sociologica del fenomeno camorristico, oggi deve costatare che il gangerismo sociale rappresenta una forma di radicalizzazione dello scontro di classe. L’abbandono delle periferie, l’assenza di qualsiasi prospettiva di lavoro, l’inutilità dello studio e della formazione fanno da cornice alla diffusione di un modello culturale in cui questi ragazzi si identificano. Le motivazioni che conducono questi giovani alla violenza sono prive di qualsiasi significato “materiale”. Sono il frutto della reazione al fallimento dei loro padri, la voglia di rappresentare i propri territori abbandonati a se stessi, la convinzione che accedere al successo è possibile solo attraverso il potere dei social che danno spazio anche alle loro “prodezze”.

Sembra che questi ragazzi siano legati ad un destino da cui non possono sfuggire. “Quando si leggono i dati sul rapporto strettissimo tra tassi di disoccupazione, tassi di abbandono scolastico, precedenti penali nel nucleo familiare e tassi di criminalità minorile, non si può che restare impressionati – conclude Sales – da una così implacabile connessione”.

Allora, non c’è nulla da fare? Nessuna delle due ricerche che abbiamo citato arriva ad una conclusione così pessimista. Quello che però emerge chiaramente è l’insufficienza di quanto lo Stato ha messo (e mette) a disposizione per affrontare il problema. Serve ben altro sforzo, c’è bisogno di molti mezzi e nuove idee, e di una volontà politica che fino ad oggi non abbiamo avvertito così determinata.

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