Essere rinomati non è bello,
non è così che ci si leva in alto.
Non c’è bisogno di tenere archivi,
di trepidare per i manoscritti.

Scopo della creazione è il restituirsi,
non il clamore, non il gran successo.
È vergognoso, non contando nulla,
essere favola in bocca di tutti.

Boris Leonidovič Pasternak
(traduzione di A.M. Ripellino)



spingimi tu, poeta, contro un muro.
stringimi, guardami in faccia. dimmi chi sono veramente. spaventami.
(Sebastiano Aglieco, tratto da Impermanenza, diari – narcysolibri 2022)

In genere si crede che la pratica dello scrivere poesia – scrivere più che leggere – sia attività terapeutica per sedare il dolore, per dare forma all’informe dell’emozione che spesso attanaglia le persone. I corpi desiderano travasare la loro linfa nella forma altra della scrittura perché questa possa in qualche modo farli specchiare in un corpo luminoso.



Ecco, questo modo di pensare la poesia, anche se comprensibile, presenta diversi rischi. Si pensi alla favola di Biancaneve. La regina cattiva, guardandosi allo specchio, si aspetta che lo specchio magico le rivolga solo parole gratificanti: tu sei la più bella del reame. La regina non ha fatto i conti col fatto che lo specchio è condannato a dire solo la Verità. Non può avere parole necessariamente gratificanti, ma parole vere, costi quel che costi. Si immagini, allora, lo specchio di Biancaneve come la Verità in cui si specchia la poesia. Ecco allora che la poesia non può fingere. Deve fare i conti con la Verità.



Quando chi scrive si annega nel sentimento dolce col quale la parola le fa credere di essere all’altezza del sentire, non ha fatto i conti che la forma prima o poi deperisce, si sfalda tra le nostre mani, c’inganna, esattamente come la propria immagine riflessa nello specchio. Ciò che una volta ci sembrava polito, corrispondente, ora lo avvertiamo come materia ancora bruta, fragile. È l’impermanenza, questo sfaldarsi delle cose che è la Verità nelle cose. Credo che ogni scrivente debba prendere coscienza di quanto possa essere difficile trovare una forma che duri il più possibile nel tempo, sapendo che prima o poi il tempo la rapirà comunque.

Ecco, allora, la necessità di considerare tutte le esperienze legate alla scrittura, oltre che necessarie, se si avvertano come necessarie, anche transeunti, depauperate. Bisogna che la poesia sia sottratta il più possibile a una serie di riti. Deve essere preservato, piuttosto, il rapporto tra la scrittura e chi la pratica: stringente, strettissimo, una specie di lotta all’arma bianca, persino pericolosa. Una lotta non pacificata dalla quale far scaturire una parola che abbia la forma del nutrimento necessario.

Chi sono le persone, oggi, veramente autorizzate a far poesia? Sono quelle che sentono sulla propria pelle il peso della necessità ad esprimersi, ricavando il massimo dell’espressività, il massimo della tensione/tenzone. Sono i poeti “operai”, coloro che non hanno scisso la parola dal fare (poiesis); coloro che sentono la necessità struggente di essere all’altezza del compito. Direi, più radicalmente, coloro che non hanno parola e che quando l’hanno trovata sono diventati potenti nella loro parola.

I poeti possono diventare molto furbi. Oggi, infatti, si scrive mediamente bene, anche assai bene. La poesia può essere praticata come tecnica eccelsa, e molti lo fanno, ma se la poesia ha a che fare con la Verità, allora dobbiamo accettare che essa sia materia depauperata dal tempo, condizionata dal tempo e per questo creatura che lotta per essere nella migliore forma possibile.

Creatura umile, umilissima, che non desidera svendere Bellezza, Vanità, Potere.

Creatura che non conosce la furbizia ma solo la pietà.

Che può fare a meno di tutti i corollari, persino della carta stampata, del desiderio di essere pubblicata.

Che denuda e si denuda.

Occorre che essa sia diffusa con la modalità precaria della traccia deperibile: copie minime, fogli minimi, stampa a mano, calligrafia spuria, imperfezione.

La poesia è lingua destinata all’archivio, più di altre. Deve quindi essere sottratta alla logica del macero e della mercificazione, all’uso e getta della letteratura spicciola, all’idea utopistica della vendita.

Per fare questo occorre ritornare a una parola scritta sulla corteccia degli alberi, sulla nuda pietra, sulla propria pelle. Occorre provare l’angoscia del non avere carta e matita.

Occorre fondare sette di poeti estinti: veri ciechi, veri profeti del nulla.

Non può esistere un canone ma solo una testimonianza.

La parola canone deve sparire a favore dell’elenco con asterischi.

Quindi la critica non deve dare medaglie, non deve proclamare la morte della poesia e lavarsi la coscienza ma solo elencare, leggere profondamente e liberamente, i poeti vivi e ancora di più i poeti morti.

I grandi sono grandi perché molti hanno detto che sono grandi.

I piccoli sono piccoli perché molti hanno detto che sono piccoli.

La forza della vera poesia si misura non dalla sua bellezza intrinseca ma dal riconoscimento della nostra urgenza a cercarla e a leggerla.

La forza della vera poesia si misura dalla capacità del lettore di uscire dal già sentito, dal già detto, dalla ciurma accondiscendente dei servi.

La poesia esiste allo stesso modo di un ago nel pagliaio. E siccome esiste già, occorre dissotterrarla come l’archeologo in uno scavo. Ripulirla, farla risplendere.

Per essere necessaria deve essere imparata a memoria; come gli amici di Anna Achmatova impararono a memoria il suo poemetto Requiem, salvandolo, in questo modo, dalla censura del potere.

Occorre educare la necessità della poesia fin dalla scuola, perché essa è un gesto ancora più grande della scrittura. Occorre coltivare l’idea che la poesia non ha desiderio di fama, e che proprio da questa sua povertà estrema è in grado di trovare forza.

Un poeta non scrive mai con la coppa di spumante sul tavolino o pagando cene post lettura nei ristoranti di lusso. Non può scrivere se non sente sul collo il pericoloso vento del deserto. Se non si sente in pericolo. Se non rinunci a corteggiare e a sottomettere. Niente a che vedere, insomma, con i festival della letteratura.

Diceva una volta una famosa cantante lirica a proposito di un altro famoso tenore: “oggi tutti cantano assai bene, ma la voce di quello lì ha qualcosa che gli altri non hanno: una rabbia, una tensione…”. Riconosceva che quel tenore cantava in quel modo perché aveva attraversato il tempo brutale della guerra e della fame e che questo tempo aveva attraversato il suo canto. Oggi, certo, nessuno si augura la guerra e la fame, ma io credo che se mettessimo in mano una matita ai bambini che vivono la guerra e la fame e li indirizzassimo a scrivere, leggeremmo qualche verso che ci farebbe male. Magari non bello, non esteticamente polito, ma potente, struggente. E sarebbe molto diverso da uno di noi che a tavolino si mettesse a scrivere della guerra e della fame. Le parole non bastano, non si tratta di contornarle di Bellezza ma di renderle pericolose.

Oggi l’arte è una merce troppo comune e a buon mercato. Tutti la possono praticare, tutti possono attingere a un armamentario di retorica che ci aiuta a ben scrivere. Ma forse dobbiamo fare un bel passo indietro, restituire la poesia alla poesia, alla sua natura di lingua senza compromessi. I poeti, grandi e piccoli, i poeti che desiderano diventare poeti, dovrebbero incominciare a considerare la loro parola inutile, irriconosciuta, merce che non ha scambio, povera creatura che non vende e non svende nulla. Piuttosto, per mancanza di inchiostro, impressa sui muri col duro stiletto delle nostre dita ferite.

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