Proprio Peter Handke, premio Nobel per la Letteratura nel 2019, sosteneva nel 2014 che il premio dovesse essere soppresso. Non spiegava la sua icastica affermazione, ma un fondo di verità possiamo ricostruirlo anche oggi. Il Nobel che premiava i dissidenti sovietici, i pionieri dell’anticolonialismo in Africa, le attiviste femministe in Europa, non può ridursi all’elegante corifeo del senso comune. Olga Tokarczuk, premio per il 2018, e il suo omologo dell’anno successivo rappresentano, purtroppo e per varie ragioni, un mainstream culturale che talvolta si veste da differenza giuridica, o politico-religiosa, ma che resta fondamentalmente imbrigliato nei più convenzionali orizzonti di senso.
La Tokarczuk è stata premiata per “la sua immaginazione narrativa che con passione enciclopedica rappresenta l’andare al di là dei confini come forma di vita” e Handke “per un lavoro influente che con ingegnosità linguistica ha esplorato la periferia e la specificità dell’esperienza umana”. Ma è davvero così? La scrittrice polacca, per ragioni anagrafiche e civili, ha rappresentato un milieu di studi antagonisti rispetto al convenzionalismo del socialismo cristiano polacco; quella differenza è però finita annacquata. Con I vagabondi ha ottenuto grande successo scandagliando a sorpresa un mondo più di impressioni che di espressioni, ma il fortunato e tardivo risultato del volume conferma le perplessità: perché il mondo non guardava quando l’opera usciva e oggi la rivaluta di prima grandezza? Forse quell’arrendevolezza scientemente orientata alla contemplazione ieri era fuori moda e al tempo odierno suona da consolazione?
Il romanzo Nella quiete del tempo ha dato voce a una vena peraltro immaginifica e distopica che la motivazione del Nobel non le ha riconosciuto, nemmeno in riferimento all’eco-thriller Guida il tuo carro sulle ossa dei morti. Le seduzioni giudaico-cristiane dell’elefantiaco I libri di Jakob, ancora non tradotto in Italia, confermano che la scrittrice ha talento a fotografare il senso comune un po’ prima che accada, comunque seguendone gli sviluppi e mai asserendosi davvero indipendente da esso.
Destino in fondo simile a quello di Handke, che ha esordito mettendo alla berlina tutto il primo Novecento tedesco e approdando però a una cifra stilistico-narrativa ben più involuta: Sempre ancora tempesta è di una brillantissima e asciutta introspezione, ma già nell’intenso e conflittuale lavoro con Wim Wenders è come se il Nostro fosse calato dalla rottura di ogni convenzione al rappresentare l’anticonvenzionale per convenzione – più convenzionale dei convenzionali, come successe al filosofo francese Bernard-Henri Lévy.
Sono, certo, la Tokarczuck e Handke due scrittori che investigano a fondo il rapporto tra il diritto e le religioni: anzi, se ne imbevono così tanto da non riuscire più a leggerlo, lo rappresentano e basta. L’attivista polacca che si riconosce in una tradizione emancipativa del misticismo cristiano e l’austriaco trapiantato che riscopre il nazionalismo serbo-ortodosso. Eppure, ne escono visioni addomesticate, dove la sensibilità femminile per assurgere a voce deve de-corporalizzarsi e il ribelle, per essere ascoltato, deve prendere l’etichetta del ribelle da tabloid, dell’opinion maker senza costrutto.
Questi autori, premiati anche sulla base di opere non sempre all’altezza del loro vero genio, fanno rimpiangere che il Nobel non sia stato ancora mai dato a Claudio Magris, che ha dedicato la sua letteratura a una ricerca di senso della socialità democratica, o a Roberto Calasso, che nella grigia inquietudine del pessimismo ha saputo scavare pareti solide per l’erudizione. Il Nobel, mai come stavolta, non è un contropotere, ma l’espressione di un potere che gioca a fare il suo contrario. Corteggiando l’Est, ma puntando sempre e comunque ad Ovest.