Il 16 aprile 1891, nella cattedrale anglicana di Città del Capo, una giovane coppia si scambia le promesse matrimoniali. La sposa ha solo 21 anni ed è arrivata in Sudafrica qualche giorno prima, dopo un lungo viaggio in mare, e molte tribolazioni. La sua storia d’amore con l’amato Arthur Tolkien, che ha 13 anni in più di lei, non è infatti stata facile. Ci sono state obiezioni da parte delle famiglie, per non parlare delle migliaia di chilometri che separano la città di Birmingham, nel cuore dell’Inghilterra, dall’esotico paese dove Arthur è recentemente emigrato, con la speranza di un lavoro migliore. Ma l’attesa è finita, e per Mabel Suffield la vita fiorisce con una promessa di felicità e amore, in una nuova terra sotto un sole infinito.



Tutto finirà presto. Il lavoro di Arthur è molto impegnativo, e il clima e lo stile di vita sudafricano si rivelano insopportabili per Mabel – e soprattutto per il suo primogenito, nato a Bloemfontein l’anno successivo. Nell’aprile del 1895, Mabel torna in Inghilterra per quella che sarebbe dovuta essere una breve vacanza, portando con sé il piccolo Ronald, e suo fratello Hilary, nato pochi mesi prima. Ma il marito non si unirà a loro: poco tempo dopo, l’amato Arthur muore inaspettatamente in Sudafrica, lasciando sola la sua giovane vedova, con pochi redditi e un futuro incerto.



Non sappiamo esattamente cosa accadde nel suo cuore negli anni successivi, ma sappiamo che nel giugno del 1900 Mabel viene accolta nella Chiesa cattolica, dopo un cammino di conversione iniziato con la morte del marito. È una conversione che si rivelerà fatale. Il sentimento anticattolico dei Suffield e dei Tolkien è molto radicato, e Mabel muore quattro anni dopo, abbandonata ed esausta, dopo essersi “ammazzata di fatica e stenti, per assicurare che [i suoi figli] mantenessero la fede”, come scriverà il suo primo figlio molti anni dopo.

Oggi Mabel è sepolta nel cimitero di Rednal, nella periferia di Birmingham, non lontano dalla tomba di san John Henry Newman. Il carisma di Newman è infatti per Mabel una fonte di speranza negli ultimi anni della sua vita, e in seguito alimenterà i suoi figli, affidati contro la volontà delle famiglie proprio ad uno dei pupilli di Newman, padre Francis Morgan.



John Ronald Reuel Tolkien non dubitò mai che sua madre fosse una martire, e che la propria fede fosse stata “acquistata” al costo del suo sacrificio. E fu un sacrificio fecondo: il seme piantato nel cuore del suo primogenito avrebbe dato un ricco frutto, secondo i tempi di Dio, e negli anni avrebbe generato quella che è senza dubbio l’opera cattolica più diffusa e influente dell’ultimo secolo.

Che Tolkien sia un autore “cattolico” è difficile da negare. Tolkien stesso descrisse Il Signore degli Anelli come “un’opera fondamentalmente religiosa e cattolica”. Ma cosa significa veramente?

Il Signore degli Anelli senza dubbio non è un’“opera cattolica” perché il suo autore rimase un cattolico praticante per tutta la vita, onorando la memoria di sua madre con una devozione eroica ai sacramenti e un amore tenace per la Chiesa. Chiunque legga le sue bellissime lettere non può fare a meno di ammirare la forza e semplicità della fede di Tolkien, spesso rivelata nella quotidianità della vita famigliare o in contesti di comunione, come quella con i suoi compagni di scuola, i membri del Tea Club e della Barrovian Society (T.C.B.S.).

Il Signore degli Anelli non è neanche un’opera cattolica perché i suoi contenuti possono essere associati ad aspetti tipici della devozione cattolica; posso citare per esempio il carattere cristologico di personaggi come Gandalf, Sam, Frodo e Aragorn, il simbolismo eucaristico del pane “lembas” elfico, i paralleli cronologici tra l’arco temporale del romanzo e l’anno liturgico, la caratterizzazione mariana di Galadriel, e così via.

L’opera di Tolkien non è neanche “cattolica” in senso etimologico, e cioè per la sua accessibilità e universalità, anche se queste erano proprio le sue aspirazioni: con l’ambientazione precristiana del romanzo Tolkien desiderava infatti parlare alla totalità della sua società contemporanea post-cristiana. Queste aspirazioni si sarebbero realizzate, affascinando milioni di lettori di ogni provenienza, e risvegliando in loro il “desiderio di cose grandi” (come fa Gandalf con gli Hobbit).

Infine, e soprattutto, il cattolicesimo di Tolkien non dipende neanche dal repertorio di “valori” o “concetti” (presunti) cattolici, che vengono spesso identificati nel romanzo da molti lettori – dall’amicizia al sacrificio di sé, dal potere della misericordia all’ecologia, per citarne solo alcuni. I libri di Tolkien rappresentano certamente in forma simbolica elementi della verità cristiana: del resto Tolkien stesso ammise “di avere come oggetto unico l’elucidazione della verità e l’incoraggiamento di una morale buona nel mondo reale”. 

Tra questi “elementi di verità”, si potrebbe evidenziare in particolare la visione di Tolkien della storia come lo scontro tra due narrazioni: da una parte, una narrazione umana, cioè quella che viene percepita dall’analisi superficiale dei “saggi”, e che consiste in una lunga, inesorabile sconfitta sotto il potere della morte e della decadenza, e a cui rispondere con la disperazione (Denethor) o la ricerca del potere (Saruman); dall’altra, la progressiva narrazione di Dio, meno appariscente, che si sviluppa negli “angoli dimenticati” della storia, grazie al fiat dei personaggi più umili e nascosti, ed è destinata a un’imprevista vittoria finale. Questo tema è riassunto bene in due lettere che Tolkien scrisse a suo figlio, nei giorni più oscuri del XX secolo:

“Ciò che è veramente importante è sempre nascosto ai contemporanei, e i semi di ciò che deve essere stanno tranquillamente germogliando al buio in qualche angolo dimenticato, mentre tutti guardano Stalin o Hitler. Nessun uomo può stimare ciò che sta realmente accadendo nell’attuale sub specie aeternitatis. (…..) Si sa che c’è sempre del bene: molto più nascosto, molto meno chiaramente percepito, che raramente si manifesta in bellezze riconoscibili, visibili, di parola o atto o volto”.

Questa visione è profondamente cristiana, e riflette l’idea che Tolkien aveva della storia di sua madre. Ed è ovviamente un tema centrale anche nel Signore degli Anelli, dove la vittoria è ottenuta, contro ogni analisi e previsione umana, grazie all’eroismo degli impotenti Hobbit, e di un re nascosto (Aragorn), descritto come una “radice profonda” che “non viene raggiunta dal gelo”.

Se tutto ciò è vero, Il Signore degli Anelli (e la letteratura di Tolkien in generale) non è cattolico solo, e forse non proprio per tutte queste ragioni.

Ciò che è veramente cattolico in Il Signore degli Anelli è semmai la natura della sua origine, la strada o il metodo che Tolkien ha seguito per scriverlo, la mentalità in cui il romanzo è nato e si è poi sviluppato. Il Signore degli Anelli, infatti, non è emerso come realizzazione di un progetto dell’autore, come il prodotto di un’impresa intellettuale o di una strategia apologetica, didattica o culturale. Tolkien percepiva invece la sua letteratura come qualcosa di “accaduto”, come un frutto inaspettato di una volontà Altra, a cui lui semplicemente offriva la propria disponibilità.

Si può illustrare questa percezione con un breve aneddoto dalle sue lettere, in cui Tolkien racconta di un suo incontro fortuito con un eccentrico personaggio:

“Improvvisamente mi disse: ‘Certo non credi di aver scritto da solo tutto quel libro, vero?’ Puro Gandalf! Conoscevo troppo bene Gandalf per espormi in modo avventato, o per chiedergli cosa intendesse. Penso di aver detto: ‘No, non ci credo più’. E da allora non sono più riuscito a crederci. Una conclusione allarmante (…) ma che non può insuperbire chiunque consideri le imperfezioni degli ‘strumenti scelti’ e ciò che a volte sembra essere di fatto una deplorevole inidoneità allo scopo”.

Gandalf è per Tolkien un’entità divina, simbolo della Grazia personificata: in quello strano incontro Tolkien riconobbe dunque Dio stesso, la “Verità” divina, che rivendicava la “co-autorialità” delle sue storie, e gli ricordava il suo ruolo puramente strumentale.

Tolkien infatti descrisse spesso se stesso come di un semplice strumento nelle mani di Dio, ed è proprio questo che desiderava diventare fin dall’adolescenza. Come scrisse ai suoi amici di scuola, “La grandezza che intendevo era quella di essere un grande strumento nelle mani di Dio – quella di muovere, fare, realizzare, o per lo meno di incominciare delle cose grandi”.

Questa consapevolezza di essere chiamato ad essere uno strumento nelle mani di Dio, e non principalmente difensore di dottrine o valori a Lui associati, è visibile in tutte le fasi della composizione del Signore degli Anelli. Tolkien ripete spesso nelle sue lettere che mentre scriveva il libro “non stava inventando, ma solo riportando (imperfettamente)” e che a volte doveva aspettare fino a quando “ciò che realmente era accaduto” non gli veniva rivelato. Tolkien infatti descrisse più volte la sua scrittura come un “evento”, di cui lui presentava solo un “relazione” imperfetta.

Per Tolkien dunque, se Il Signore degli Anelli risplende della bellezza della verità cristiana, questo non è un prodotto della sua mente, ma è piuttosto mediato da essa. Tolkien percepì, fin dai primi anni, di essere destinato “ad accendere una nuova luce, o, ciò che è la stessa cosa, a riaccendere una vecchia luce nel mondo”, cioè “a testimoniare Dio e la Verità”. Allo stesso tempo non pensò mai che la luce della verità di Dio (che “risplende” nella sua letteratura) provenisse da lui stesso, ma semmai era “rifratta” attraverso di lui – per usare una sua immagine ricorrente.

La bellezza e la verità del Signore degli Anelli affondano dunque le radici nella fede di Tolkien, da intendersi non come deposito di temi e di valori, ma piuttosto come fonte di un atteggiamento verso le circostanze della vita, vissute come il luogo in cui Dio sviluppa la sua narrazione, una narrazione che richiede la cooperazione (e la co-autorialità) dell’uomo, che consiste innanzitutto nel riconoscimento dell’Autorità del vero grande Autore.

L’atteggiamento cattolico di Tolkien nei confronti del “mistero della creazione letteraria” è dunque semplicemente un riflesso del suo atteggiamento generale verso le circostanze in cui fu chiamato a vivere, da lui considerate, secondo le sue stesse parole, come “strumenti o apparizioni di Dio”. Questa è la fede semplice di Tolkien: semplice ma grande come quella di sua madre, la stessa fede semplice e potente di milioni di cattolici “normali”.

Se si va ancora più in profondità, si dovrebbe concludere che Il Signore degli Anelli affonda le radici nella fede della madre di Tolkien, la giovane Mabel Tolkien, morta testimone e martire (nascosta) della storia che l’aveva afferrata durante la sua breve e drammatica vita. Come riconobbe Tolkien stesso, reagendo alla prima ondata di entusiasmo per il suo Il Signore degli Anelli:

“In realtà, ho pianificato molto poco, e devo soprattutto essere grato per essere stato educato (da quando avevo otto anni) in una fede che mi ha nutrito e insegnato tutto il poco che so; e questo lo devo a mia madre, che si è aggrappata alla sua conversione ed è morta giovane, soprattutto a causa delle difficoltà e della povertà che ne derivarono”.

Questa è la vera ragione per cui l’opera più famosa di Tolkien è profondamente cattolica. Il Signore degli Anelli è testimone della verità e della bellezza che una vita imperfetta può produrre, per il bene di un mondo ferito, quando uno aderisce alla propria vocazione “creativa”, nell’intimità del rapporto con Dio e nella fedeltà alla Chiesa e ai suoi sacramenti.  La storia di Tolkien testimonia che il proprio compito non è necessariamente quello di “fare grandi cose”, ma piuttosto di piantare un seme sotto il gelo, che Dio, secondo il Suo tempo, porterà a frutto.