Il principio di sussidiarietà, presente nella dottrina sociale della Chiesa cattolica sin dalla prima grande enciclica sociale (Leone XIII, Rerum novarum, 1891, § 28), fu indicato da Pio XI come “principio importantissimo nella filosofia sociale”: “[…] Siccome è illecito sottrarre agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria e demandarlo alla comunità, così è un’ingiustizia rimettere ad una maggiore e più alta società quel che dalle minori e inferiori comunità può esser fatto e realizzato, ed è al contempo grave danno e sconvolgimento del retto ordine, dato che ogni opera sociale per sua propria forza e natura deve prestar sussidio alle membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle” (Quadragesimo anno, 1931, § 80).
Il filosofo francese Rémi Brague nel suo avvincente libro intitolato À chacun selon ses besoins. Petit traité d’économie divine (Flammarion, Paris 2023) mostra come il principio di sussidiarietà sia fondato nel graduato agire provvidenziale del Padre, il quale si prende cura finanche delle più infime delle Sue creature, come uccelli e gigli del campo (Mt 6, 26-29), e quanto più ha a cuore la vita e il destino dell’uomo! (Mt 10,29-31). Dio, infatti, scrive san Tommaso d’Aquino, “provvede a ciascuna natura secondo la sua capacità” (p. 28; ScG, III, 113). Ogni creatura, nota Brague, sia essa pietra, pianta, animale o persona umana, “da una parte riceve da Dio, secondo il suo grado di essere, ciò di cui ha bisogno per conseguire il proprio bene; dall’altra, più una creatura è elevata su questa scala, più essa deve agire da se stessa per conseguire il proprio bene” (30). In tal modo, osserva Brague, per Tommaso “Dio delega la Sua provvidenza” (31) alla creatura rivestita di maggiore dignità e nobiltà poiché dotata di logos: l’uomo: “Tra le altre, la creatura razionale sottostà alla provvidenza divina in modo più eccellente, in quanto essa stessa viene resa partecipe della provvidenza, provvedendo a sé e alle altre creature” (105; STh I-II, q. 91, a. 2, c.); “La creatura razionale partecipa dunque della divina provvidenza non solo secondo l’essere governata, ma anche secondo il governare” (106; ScG, III, 115).
Similmente, alla fine del XVIII secolo, Herder farà pronunciare al Creatore incoraggianti parole rivolte all’uomo: “Sii a mia immagine […]. Domina e regna! Ciò che puoi realizzare di nobile e d’eccellente a partire dalla tua natura, conducilo a buon fine; non ho il diritto di aiutarti mediante miracoli, perché ho rimesso il tuo destino d’uomo nelle tue mani d’uomo; ma tutti i miei santi e le eterne leggi della natura ti aiuteranno” (31).
Riprendendo l’immagine biblica di Dio che, come solerte vignaiolo, pianta una vigna e attende speranzoso che essa porti i suoi frutti (Is 5,1-2), Brague ricorda che il tempo della storia indica l’attesa paziente di Dio nei confronti della drammatica, libera adesione responsoriale dell’uomo alla volontà divina (133-139). Al riguardo, notiamo che la libertà non è la scelta: Eva, quando ha trasgredito, non era libera. Non c’era libertà di scelta, tra bene e male. La sua scelta di disobbedire a Dio – sottolinea Semyon L. Frank – fu segno di asservimento già avvenuto nei confronti del serpente antico. Non è vero quindi che l’uomo sia libero o di obbedire o di disobbedire a Dio. Il vero atto libero dell’uomo consiste unicamente nell’obbedienza, giacché “il fine della creatura razionale è aderire a Dio” (153; Tommaso d’Aquino, ScG, III, 115). “La provvidenza – scrive Brague, rifacendosi a san Gregorio di Nissa – deve dunque agire sulla libertà liberandola” (125).
Il rifiuto definitivo, da parte dell’uomo, di tale liberazione assomiglia al capriccio di “un bambino imbronciato che preferisce chiudersi dentro la sua camera anziché prender parte alla gioia della sua famiglia” (119). Qui Brague rinvia ad un’acuta riflessione di C. S. Lewis, secondo cui “le porte dell’inferno sono chiuse dal di dentro“: “Non voglio dire che gli spiriti [ghosts] non possano desiderare di uscire dall’inferno, nella vaga maniera in cui un uomo invidioso ‘desideri’ essere felice: ma certamente essi non vogliono neppure i primi gradi preliminari di quel rinnegamento di sé mediante il quale soltanto l’anima può raggiungere un qualsiasi bene. Essi godono per sempre l’orribile libertà che hanno preteso e sono perciò schiavi di loro stessi; proprio come i beati, che si sono per sempre sottomessi all’obbedienza, diventano per tutta l’eternità sempre più liberi” (The Problem of Pain [1940], New York 1947, 115-116).
Brague smaschera la falsa rappresentazione della relazione tra l’agire provvidenziale di Dio e la libertà dell’uomo, che domina inconsciamente il pensiero prometeico dell’uomo moderno, secondo cui libertà divina e libertà umana si contenderebbero un medesimo campo d’azione, similmente al principio dei vasi comunicanti. Invece, “in nessun caso la libertà umana e quella di Dio entrano in conflitto. Al contrario, è partecipando alla libertà divina che l’uomo diventa libero” (144). “Cristo ci ha liberati per la libertà!”, dichiara l’Apostolo (Gal 5,1). Noi siamo dei liberati, dei “ricomprati” al prezzo senza prezzo del sangue del nostro Riscattatore.
La vera relazione, libera perché liberata, dell’uomo con Dio non è pertanto quella basata sul modello pagano del “do affinché tu mi dia” (145), ma è quella espressa nell’umile preghiera di sant’Agostino: “Da’ ciò che comandi e comanda ciò che vuoi” (181; Conf. X, 29, 40). L’esatto contrario dell’atteggiamento dell’uomo che vive di fede è la magia, che – afferma Brague – si avvicina alla tecnologia. La magia, trasgredendo il principio di sussidiarietà (196), “consiste nell’ottenimento di mezzi di natura presuntamente divina per metterli a servizio di fini umani, troppo umani: procurare la riuscita materiale o sentimentale, la salute, la ricchezza, la felicità, etc.” (196). La fede, invece, “non si propone affatto di mettere a servizio dei nostri fini mezzi più potenti. Al contrario, essa mira a niente di meno che a farci cambiare i fini. È ciò che si chiama generalmente ‘conversione'” (197). Lo ha visto e vissuto C. S. Lewis: “Ciò che noi qui e ora chiamiamo la nostra ‘felicità’ non è il fine che Dio ha principalmente in vista: ma quando noi siamo tali che Egli ci possa amare senza impedimento, allora saremo di fatto felici”; “La volontà umana diventa veramente creativa e veramente nostra quando è interamente di Dio, e questo è uno dei molti sensi in cui colui che perde la propria vita [soul] la troverà” (The Problem of Pain, 36, 90).
Da parte sua, Brague precisa che la provvidenza divina dona all’uomo tutto ciò di cui egli ha bisogno per conseguire il suo vero bene, che non è primariamente la salute del corpo, né la felicità dell’uomo naturale, ma è la santità della persona (163). “Il Padre non è affatto paternalista” (176). Sicché, chiarisce Brague intervistato da Guillaume Daudé in occasione dell’uscita del suo libro, “per il cristianesimo, nel caso dell’umanità, la provvidenza assume una dimensione nuova, storica, esigendo un impegno totale della nostra libertà” (Le Figaro, 26/10/2023). Impegno che, come pensò e visse Paul Ludwig Landsberg, nelle distrette della storia assume sempre la forma di “decisione per una causa imperfetta” (Réflexions sur l’engagement personnel, Esprit, Nov 1937).
Uno degli effetti della divina provvidenza nella società umana, per Tommaso d’Aquino, è la distribuzione del lavoro nella misura in cui “ciascuna persona è resa incline ad un dato mestiere piuttosto che ad altri” (121; ScG, III, 134). Ciò vale in special modo per la Chiesa, come cantano le voci degli operai nei Choruses from ‘The Rock’ (1934, I) di Th. S. Eliot: “Noi edifichiamo il senso: / Una Chiesa per tutti / E un lavoro per ciascuno / Ogni uomo alla sua opera”. Ma il gusto e la dignità del lavoro ben fatto di uomini coscienti di appartenere ad un popolo, ad una compagine ordinata e orientata ad un fine inesorabilmente positivo è stato cantato in modo insuperabile da un connazionale di Brague, Charles Péguy: “Ai miei tempi tutti cantavano. (Eccetto me, ma io non ero degno di appartenere a quei tempi). Nella maggior parte dei laboratori si cantava. Oggi si sbuffa. […] Noi abbiamo conosciuto dei lavoratori che il mattino non pensavano ad altro che al lavoro. Si alzavano il mattino, e a quale ora (!), e cantavano all’idea di partire per il lavoro. Alle undici cantavano andando a pranzo. […] Andavano, cantavano. Lavorare era la loro gioia e la radice profonda del loro essere. E la ragione del loro essere. […] Non si trattava di essere visti o non essere visti. Era l’essere stesso del lavoro che doveva essere ben fatto. […] Dicevano ridendo e per fare imbestialire i curati che lavorare è pregare, e non sapevano di parlare così bene. Tanto il loro lavoro era una preghiera. E la bottega un oratorio. Tutto era il lungo svolgersi di un bel rito” (L’argent, 16 febbraio 1913).
Uno dei motivi prevalenti che induce oggigiorno a non parlare più di provvidenza – risponde Brague nell’intervista per Le Figaro – consiste nel fatto che si pensa “che parlare di provvidenza voglia dire che tutto va benissimo. Si può, forse si deve, credere che tutto finirà bene, come disse Giuliana di Norwich. Ma ciò non vale certamente a breve termine, e non necessariamente per questa vita terrena”.
Ciò che Dio in fondo si attende dall’uomo, già nella Storia della salvezza e non ancora in Patria, è “che l’uomo viva di Lui” (210), che gusti e veda “come è buono il Signore” (Sal 34,9). La sovrana (e sussidiaria!) provvidenza di Dio svilisce o annichilisce forse l’essere dell’uomo e la sua libertà? No. Misterio eterno del Padre e del Suo Unigenito, mistero creato (e ricomprato) dell’esser nostro.
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