Tonino Guerra sa di cosa si è trattato. Nel campo di concentramento c’è stato, in Germania, a Troisdorf. E lì ha cominciato a recitare poesie: i Sonetti romagnoli che sapeva a memoria; e a scrivere i suoi primi componimenti (sempre in romagnolo) per allietare le serate dei compagni di prigionia. La circostanza più dura, l’esito più inaspettato. Quale aspetto della nostra umanità si manifesta qui? La domanda si impone, perché viviamo in tempi di tragici avvenimenti e di funeste previsioni. Cosa è nato nel cuore di quell’uomo che era Tonino, tanto da deciderne poi la vocazione artistica e quindi il contributo di ricchezza e consapevolezza che avrebbe dato al mondo?
Mi è capitato di vedere un piccolo museo a lui dedicato, all’interno del monastero di Sant’Eutimio di Suzdal, città dell’anello d’oro a 200 km da Mosca, convertito in lager durante lo stalinismo ed ora Museo. Qui migliaia di prigionieri italiani della sciagurata spedizione dell’Armir furono internati, e le donne di Suzdal guardando passare quella colonna di uomini esausti, affamati e macilenti, non videro dei nemici ma solamente degli esseri umani bisognosi, a cui diedero quel poco che avevano, irritando assai i colonnelli dell’Armata Rossa che invano ricordavano loro che si trattava di fascisti: “Ma le donne lo stesso cercavano di ficcare qualche cosa da mangiare in mano ai prigionieri di guerra. Tra di loro dicevano: ‘può darsi che qualcuno aiuti così anche i nostri mariti e figli. Quasi tutti i loro mariti erano al fronte’” (ricordo di Valentina Schalina, abitante di Suzdal).
Quando Tonino Guerra, già legato da tanti fili alla terra russa, seppe di questa storia regalò molti dipinti e oggetti personali al Museo. Probabilmente aveva risentito i ricordi della sua prigionia in lager, oppure si era commosso nuovamente per quei fratelli che avevano trovato lì la propria nostalgia di casa. Eppure anche quando “cadono addosso montagne di malinconia”, Tonino era pieno di poesia, di stupore per le cose, per l’esserci delle cose e per il dettaglio che dà il gusto. Come attingeva a questa vena d’oro? Raccontava che teneva quattro tipi di diario diversi, per non perdere nulla della realtà quotidiana, fin banale, che gli si offriva. Le idee migliori, per le sceneggiature che lo avrebbero reso famoso collaboratore di Fellini, Antonioni, Tarkovskij, De Sica, le prendeva spesso dai ritagli di giornale, come quando gli capitò un trafiletto minuscolo che suonava così: “ladro di galline scappa di prigione, torna a casa e per prima cosa apre la gabbia e libera il canarino”… Da un animo così nascono “farfalle”, soggetto tra i preferiti della sua pittura dagli echi matissiani e chagalliani e dalle cromie tanto vicine all’infanzia quanto mai banali. Farfalla che svolazza, tesse fili, si immalinconisce intrappolata in una bottiglia, spiega le ali come un fiore senza radice, farfalla che segna il momento più felice della sua vita: “Contento, proprio contento/ sono stato molte volte nella vita/ ma più di tutte quando/ mi hanno liberato in Germania/ che mi sono messo a guardare una farfalla/ senza la voglia di mangiarla.
Si tratta di una pittura, la sua, poetica in un duplice senso: nasce dallo stupore per l’esistente ma anche fa esistere (poieis) quello che c’è, perché la fantasia innanzitutto dà spazio, sviluppa i semi che sono nella realtà. Tra il seme e il fiore – o tra le radici e il frutto, avrebbe detto Paul Klee – non c’è somiglianza esteriore. Eppure così nasce l’arte dal reale: nell’uomo che, nutrito dalla sovrabbondanza della realtà attraverso le radici dello stupore e della gratitudine matura fino a diventare… farfalla. Cosa può fare un uomo, quando tutto sembra andare rotolando verso il disastro? Uno capace di fare… niente, come siamo tutti: forse può fare come “l’angelo coi baffi” inventato da Tonino, che “non sapeva far niente” se non dar da mangiare agli uccelli impagliati, perché si era impietosito guardandoli così rigidi e, sebbene tutti lo deridessero, lui andava avanti e un giorno accade il miracolo: gli uccelli spiegano le ali e cantano come non mai. Quante immagini, quanti significati ci sono in questa storia, oggi, per noi:
C’era un angelo coi baffi
che non era capace di far niente
e invece di volare attorno al Signore
veniva giù nel Marecchia
dentro la casa di un cacciatore
che teneva gli uccelli impagliati
in piedi sul pavimento di un camerone.
E l’angelo gli buttava il granoturco
per vedere se lo mangiavano.
E dai, e dai
con tutti i Santi che ridevano dei suoi sbagli
una mattina gli uccelli impagliati
hanno aperto le ali
e hanno preso il volo
fuori dalle finestre dentro l’aria del cielo
e cantavano come non mai.
Se allora siamo più umani quando speriamo e continuiamo a dar da mangiare a tutti gli “uccelli impagliati” (straordinaria metafora della condizione umana, fatta per volare ma paradossalmente irrigidita in una posa), allora anche chi “conta” può rivedere il suo compito. Dai 7 messaggi per un sindaco (L’infanzia del mondo. Opere, 1946-2012, a cura di Luca Cesari, Milano, Bompiani-Giunti, 2018): “Devi pregare che su questa piazza arrivino le cicogne o mille ali di farfalle, devi riempire gli occhi di tutti noi di cose che siano l’inizio di un grande sogno, devi gridare che costruiremo le piramidi. Non importa se poi non le costruiremo. Quello che conta è alimentare il desiderio, tirare la nostra anima da tutti i lati come fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito…”.
Una indicazione che vale per tutti e tanto più per chi governa e amministra: dare spazio a quello che nella società si manifesta come un richiamo alla grandezza del desiderio di tutti, agli ideali di bene, alla bellezza che fa rinascere la nostalgia di quegli ideali.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI