Werner Jaeger (1888-1961) è stato uno dei più autorevoli studiosi della tradizione umanistica, fondata sul riuso fecondo del patrimonio della civiltà antica, che ha costituito l’asse di riferimento centrale per l’intera storia dell’Occidente. Paideia, un ampio scavo sugli ideali alla base del modello di formazione dell’uomo greco, uscito nella sua primitiva versione tedesca a partire dal 1934 e rapidamente tradotto anche in lingua italiana, è il lavoro che gli ha garantito una fama tuttora eccezionalmente diffusa.
Vale sempre la pena tornare a confrontarsi con la lezione dei veri maestri, in ogni campo della ricerca. Lodevole è stata perciò l’idea dell’editrice Vita e Pensiero, che ha voluto riproporre in un agile volumetto, brillantemente introdotto da Carlo Ossola, il testo della pregevole conferenza che Jaeger tenne nel 1943 nell’ambito dell’Aquinas lecture affidatagli dalla Società Aristotelica della Marquette University di Milwaukee (Umanesimo e teologia, Milano 2023).
Qui il grande filologo che ha permesso di riscoprire in una nuova luce l’anima ispiratrice del pensiero di cui possiamo vantarci eredi non teme di confrontarsi con alcune delle questioni più spinose per la comprensione del nostro attuale orizzonte intellettuale. Se è vero, come sembra indubitabile, che il cuore della cultura dell’Occidente è la sua radice umanistica, occorre misurarsi con la sfida di quella nutrita schiera di interpreti che, dalla crisi del Settecento in poi, hanno preteso di poter ridisegnare a partire dalle proprie preferenze ideologiche l’enorme laboratorio creativo in cui era stato forgiato uno stile di coltivazione del soggetto umano aperto alla totalità dei suoi bisogni fondamentali.
Si è finito per ridurlo alle griglie ristrette di un naturalismo agnostico, ostile a ogni tipo di interrogazione sul trascendente e sostanzialmente scettico, indifferente e polemico nei confronti delle opzioni religiose proposte in termini di fede. Tale forma di umanesimo drasticamente amputato, chiuso in un antropocentrismo senza sbocchi né vie di fuga, solo etico e politico-civile, avrebbe cominciato a delinearsi con il divorzio dal sistema su base teologica dominante nel Medioevo. Emancipandola da lacci soffocanti, si lascia intendere che ha fatto risorgere l’architettura di sostegno del paganesimo precristiano e stabilito le premesse per il trionfo di un sapere ancorato all’oggettività della realtà e alla sua manipolazione tecnico-scientifica, in funzione di interessi e strategie sempre più compressi nella sfera della materialità.
Alla visione dell’umanesimo moderno come processo di sottrazione all’abbraccio dell’intero, Jaeger si rifiuta, però, di contrapporre la semplice demonizzazione della critica rivolta ai modelli culturali del passato, come spesso si è limitata a fare l’élite intellettuale cristiana degli ultimi due secoli, bloccata su posizioni di difesa conservatrice. Per oltrepassare ogni deformazione ristretta e unilaterale del percorso storico, l’unica scelta veramente vincente è la limpida aderenza alle prove che legittimano una lettura alternativa. Bisogna ripartire dalla storia come tale: dagli indizi che essa ci ha lasciato, dai suoi “documenti”, dal dettato letterale dei testi in cui si sono espressi la sua coscienza e il suo patrimonio ideale. Comandano i fatti: le ipotesi esplicative devono venire di conseguenza.
Per questo motivo, Jaeger dichiara più volte di rifarsi non alla sua personale concezione del mondo, ma al contributo di informazioni e di analisi portato dall’avanzamento delle ricerche specialistiche, condotte direttamente sul campo, alle quali lui stesso ha generosamente collaborato nel corso di una lunga e operosa attività accademica. È la ricerca in presa diretta che gli consente di mettere a fuoco il nucleo fondativo del modello antropologico che il Rinascimento degli umanisti neoplatonici italiani, di Erasmo e dei cultori della simbiosi tra la civiltà degli antichi e i bisogni di formazione dell’uomo moderno ha potuto elaborare muovendo dalle basi indistruttibili del patrimonio classico.
Tale classicismo cristianizzato si è poi trasmesso ai maestri dell’arte dell’educazione fiorita nella cornice dell’Antico Regime, prolungandosi come lascito ancor vitale nei nuovi assetti collettivi che ne hanno preso il posto. Ma il punto decisivo è che anche la modernità più tenacemente realistica, innamorata della promozione della “dignità dell’uomo” e della tutela del valore supremo della ragione, non si è fatta assolutamente da sé. Maturata nel travaglio di una “rinascita”, implica strutturalmente un debito con la tradizione di cui è stata figlia. La sua impronta originaria ha fissato il codice di un profilo rimasto fortemente stabile fino alla svolta segnata dall’ingresso nella cosiddetta “età secolare”.
Da qui discende la prospettiva con cui Jaeger guarda alla sostanza del retaggio antico incorporato nel tessuto umanistico della paideia fatta propria dalle élite del mondo europeo. Nella sua fase di incubazione più remota, il fenomeno cruciale che si osserva è il precoce emergere della mente filosofica nel contesto della Grecia classica. Al vertice della sua grande cultura si impose l’esigenza di andare al di là delle forme più arcaiche della visione del mondo intrecciata all’universo simbolico dei miti e alle credenze del politeismo sostenuto dalle istituzioni del potere, per proiettarsi in una indagine appassionata intorno ai principi costitutivi dell’essere, alla sua sorgente primordiale e alle finalità ultime dell’esistenza dell’uomo.
Nella scia della polemica contro le riduzioni in senso pragmatista avallate dalla scuola dei sofisti, con Platone e più tardi con Aristotele la ricerca razionale intorno alle strutture portanti della realtà si sistematizzò in una teologia “naturale” che rivendicava il diritto di presentarsi come superamento critico delle religioni folklorizzate e come approdo a una “filosofia prima” ribattezzata, dalle generazioni successive ad Aristotele, in termini di “metafisica”.
Secondo Jaeger, è stato questo il vettore principale di sviluppo del lato più nobile e fecondo dell’umanesimo antico. La sua promozione del logos come via di accesso alla verità più profonda delle cose ha impregnato lo scenario in cui, più tardi, avvenne l’espansione della nuova forma di culto della verità germogliata dal retroterra ebraico. I maestri del cristianesimo delle origini si allearono ai filosofi greci per dare piena credibilità al loro messaggio dirompente, che scardinava le religioni antiche, e si può arrivare così a sostenere che, per “conquistare il mondo civilizzato” nella sua universalità, “il cristianesimo prese dalla teologia greca la forma razionale e dottrinale della propria teologia” (teologia per altro radicalmente rinnovata nel suo contenuto: teologia rivelata e reindirizzata come via di decifrazione dei misteri della salvezza, non più semplicemente frutto dell’elaborazione in chiave profetica della ragione umana).
Lo sfondamento della sophia antica nella dimensione del sovrasensibile che porta a compimento il desiderio dell’io non generato dalle sue forze autonome (un io dipendente: in ultima istanza, creato) ha continuato ad alimentare ciclici fenomeni di risveglio lungo tutta la storia successiva dei due millenni cristiani. Nella ricostruzione di Jaeger, la riemergenza forse più straordinaria del dialogo tra l’annuncio della fede e gli strumenti di comprensione della totalità del reale offerti dalla filosofia della tradizione classica coincise con la rinascita del XII-XIII secolo.
In forte anticipo rispetto al Rinascimento della storiografia laica otto-novecentesca, la riscoperta del patrimonio dei testi di Aristotele e di altri esponenti di primo piano della scienza enciclopedica della civiltà greca e latina, con l’accostamento diretto alla loro lettera che dilatava sensibilmente la mediazione fino ad allora consentita dal filtro della cultura araba, creò i presupposti nel cui quadro il genio di Tommaso d’Aquino e altri pensatori del suo calibro poterono cimentarsi nell’allestimento di un nuovo sistema onnicomprensivo di pensiero in cui si fondevano, nell’unità della loro pur netta distinzione, ragione umana, filosofia, scienza del mondo “fisico” e apertura alla verità dell’Assoluto incardinata nella redenzione di Cristo.
Dante è il testimone autorevole che documenta come questo edificio costruito sull’alleanza tra fede e filosofia umana sia stato il grembo di una chiamata alla conversione di ogni soggetto umano. Il primato da riconoscere era quello della sua parentela con una matrice divina. Ricentrare la vita personale e il consorzio sociale su questo legame era l’unica sorgente affidabile della possibilità per l’uomo di “etternarsi” (Inferno, XV, 85).
L’adesione alla fede cristiana portava a piena realizzazione l’aspettativa di conoscenza del “Dio ignoto” alimentata dal senso religioso degli antichi, diventando l’architrave di una nuova prospettiva di civiltà. Più solida e credibile di quella immaginata da Platone nella sua Repubblica e nelle Leggi, ma che proclamava ancora di potersi fondare sull’ascolto della voce magistrale della ragione, spalancata alla globalità delle sue implicazioni più autentiche e radicali.
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