“Il poeta è colui che vola sopra la terra / e la guarda dall’alto e al tempo stesso / colui che ne vede ogni suo dettaglio”: basterebbe questa geniale definizione del poeta polacco Milosz, posta in apertura al nuovo libro di poesia del vicentino Tiziano Broggiato, per entrare con il giusto spirito di osservazione in questi originali e affascinanti Sorvoli (Luigi Pellegrini Editore, 2022). È necessario una sorta di distacco aereo, contemplativo, per poter penetrare la complessa realtà dell’esistenza e allo stesso tempo una precisione millimetrica per potersi avvicinare alle forme e figure del mondo: “Come la punta di uno scalpello / solleva schegge dalla pietra, / così il raggio azzurro della pila / rimuove lembi di oscurità dalla stanza. / Fuori, campane ben accordate / invitano a verificare la consistenza / delle provviste, il loro stato di conservazione: / il sedativo ha raddoppiato le ombre / e la loro cacciata non è più così / imminente”.
Ombre, fantasmi, presenze inquiete abitano queste ardue e coraggiose esplorazioni di sé e del mondo compiute attraverso la lente precisa della poesia, quasi sogni ad occhi aperti o incubi in cui emergono alla coscienza minacciose premonizioni: “L’ombra della luna / trascina per le stanze / la mano calda del boia. / […] Impressionano le palme delle mani / rivolte verso l’alto della vittima / che giace sul fianco / come una grossa barca ribaltata”. Leggere questi nuovi viaggi sospesi di Broggiato mi ha fatto tornare alla mente alcune visionarie prose di Brodskij che in Un posto come un altro, contenuto in Profilo di Clio (Adelphi, 2003), rifletteva sul complesso senso di nostalgia legato al viaggio: “alla fine, il viaggiatore si ritrova, senza volerlo, a soppesare tutti gli ambienti in cui si imbatte per il loro valore di potenziale scenario di incubi futuri”.
In queste poesie di Broggiato nulla è come appare, le immagini della realtà si sovrappongono e vanno incontro a continue metamorfosi: “Nell’aria fine della sera / il paesaggio è disposto: / un presepe scheletrico su / una distesa di zattere rosse. / La natura sembra priva di radici, / sottratta al tempo / e al suo decadimento, / agli umori e al travaglio / della sua stessa gestazione”.
Di particolare forza espressiva è il poemetto centrale Il sonno di Lindbergh ispirato alla vicenda dell’aviatore americano che, nel 1927, compì la prima traversata aerea dell’Oceano Atlantico in solitaria e senza scalo: “Colline di Nova Scotia: / il loro profilo si insinua di soppiatto / nel mio campo visivo, / penetrando tra le aride fessure degli occhi / divenuti duri come pietre. / Non ci sarà più nulla, poi. / Assolutamente nulla. / E nulla ora amo disperatamente / come quel nulla”. La solitudine di Lindbergh è anche quella di chi – in una sorta di viaggio che è anche interiore e spirituale – riflette malinconicamente “ricordando le vite perse / e quelle in cui sono stato assente”, come un “Lazzaro sospeso” in attesa “di una chiamata da distanze / divenute incolmabili”.
In bilico tra essere e non essere, tra immobilità e movimento, il poeta ci consegna un’immagine del nostro tempo “sospeso tra straniamenti e promesse” mentre osserva anche la grandezza della nostra lingua cadere sotto i colpi di un “balbettante idioma”. È un campanello di allarme, quello di Broggiato, verso un tempo che cancella “ogni cosciente legame col passato” e che forse avrebbe bisogno di padri e maestri – letterari e non solo – per tornare a spiccare il volo.
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