In un recente seminario universitario di traduzione letteraria, uno degli esempi che il coordinatore aveva proposto per la discussione era quella frase del discorso evangelico sulle Beatitudini che comincia: “Beati gli operatori di pace” (Matteo 5, 9). Cioè, questo è ciò che dice la traduzione canonica (quella della Cei); perché, per esempio, la traduzione dei Vangeli nell’edizione “Millenni” dell’Einaudi recita: “Beati gli artefici di pace”; e circolano anche altre versioni, che parlano di “artigiani di pace” o “costruttori di pace” (la traduzione letterale di quella che nell’originale greco è una parola composta sarebbe: “pacefacenti” o “pacefattivi”, ma le traduzioni letterali sono spesso, come in questo caso, non del tutto soddisfacenti).



D’altra parte ogni traduzione, al di là dei tecnicismi, è più importante perfino di se stessa; perché è un’esperienza trasformatrice. Si crea infatti – in chi traduce, o esamina una traduzione che impegni veramente il pensiero – una piccola metamorfosi, che porta a ripensare i propri rapporti, non solo con il testo originario, ma anche con la realtà circostante e con lo spirito di coloro che condividono quella traduzione. 



A riprova: l’unico intervento in quel workshop di circa due ore (oggi gli studenti, comprensibilmente, stanno ancora districandosi da un periodo di passività distanziante) è stato fatto da una studentessa che aveva posto un’obiezione, e questo è il tipo di intervento più interessante. Il coordinatore infatti aveva preso le distanze da quel termine “operatori”, che gli pareva riflettere un linguaggio alquanto burocratico, e aveva apprezzato invece la latitudine mentale permessa da un epiteto come “artefici”; la giovane invece difendeva “operatori” in nome di quella che a lei pareva una significativa attualizzazione del testo.



Insistere nel dirimere tale questione è sostanzialmente inutile; quello che importa notare è che la tensione conoscitiva era nata dalla parola chiave: “pace”. 

La vera domanda dunque, che è filosofica e sociale piuttosto che filologica, è la seguente: di che cosa si parla, quando si parla di pace? “Pace” è un’idea insieme inclusiva ed esclusiva. Inclusiva, perché racchiude tutti quei bei sentimenti che ognuno di noi conosce; ma anche esclusiva (con una terminologia biblica, si potrebbe definirla “gelosa”): la pace è gelosa della propria autonomia; e non ama che, appena la si evochi, si passi subito a parlare di guerra. Nell’enorme confusione (in parte inevitabile, in parte voluta per calcoli propagandistici) dei discorsi correnti su questo tema, si finisce con il parlare in effetti di “paci” piuttosto che di pace: paci come intervalli di respiro dentro una serie di conflitti, ovvero, paci concepite come la punteggiatura della guerra.

Rispetto a tutto ciò mantiene il suo valore una visione contemplativa (spirituale, intima) della pace, connessa fra l’altro a una nobile concezione secondo la quale non si potrebbe diffondere la pace se non la si possedesse già interiormente. Come scriveva Charles de Foucauld (1858-1916) citato in un numero recente della rivista Oasis: “Senza questa vita interiore anche lo zelo, le buone intenzioni, il lavoro intenso non producono nessun frutto. Si tratterebbe di una sorgente che vuol dare la santità agli altri, ma inutilmente, perché non ce l’ha”. 

Qui il mistico esploratore francese adopera una parola grande e grave: santità. Ma la pace è una categoria più concreta e più “laica”, per cui l’idea che ci si debba prima assicurare della perfezione della propria vita interiore e poi diffonderla all’esterno appare non del tutto adeguata; e in questo senso, la presente riflessione è una sorta di palinodia rispetto a un’analisi già comparsa sulle pagine di questo giornale.

L’impulso alla pace proviene infatti, in tanti casi, da una personalità non pacificata che si rivolge direttamente o indirettamente ad altre personalità, anch’esse non pacificate, cercando (consapevolmente o no) una sorta di reciproco aiuto nel fare un poco di pace. Non nel senso di: “Su, smettiamo di contendere e facciamo la pace”, dove il “fare” si riferisce alla formalità di un patto; bensì con riferimento al “fare” come a una raccolta di pezzetti (più, non è possibile) di comportamenti e pensieri pacificanti. Insomma: due o più insufficienze (di spirito di pace) possono arrivare a creare qualcosa di sufficiente.

È suggestiva in questo senso una frase dal poemettino in prosa Intravisto, da poco pubblicato in una rubrica di poesia dalla poetessa americana Claire Meuschke: un testo scritto in uno stile colloquiale apparentemente semplice, e molto americano, che poi risulta (e qui si ritorna al punto iniziale) difficile da tradurre in un italiano scorrevole. Dice, quella frase poeticamente strutturata: “Passo, dalla sensazione che conosco me stessa, alla sensazione che una volta avevo amici che mi conoscevano bene, anche se io non mi conoscevo rispetto a loro”.

Allora: costruire un atteggiamento pacifico o pacificante significa anche ri-conoscersi come persona frammentariamente pacifica guardandosi con gli occhi di altre persone che in sé contengono una (più o meno piccola) parte di pace.

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