Il 21 settembre il Teatro Regio di Torino ha inaugurato la stagione 2023-2024 con un’opera assai rara sui palcoscenici non solo d’Italia: La Juive di Jacques Fromental Halévy. Come tutti i Grand-Opéra della prima metà dell’Ottocento francese, anche La Juive (23 febbraio 1835, Académie Royale de Musique, Paris) ha uno sfondo storico-religioso di eccezionale importanza e che – come per Les Huguenots e Le Prophète di Meyerbeer – fa sintesi teatrale d’avvenimenti politici e bellici, dogmatici e sentimentali, tutti per straordinario virtuosismo librettistico e musicale fusi in uno spettacolo meraviglioso e terribile, come il thriller di un formidabile regista. La Juive ha per proprio motore d’eventi il Concilio Ecumenico che si tenne a Costanza, al confine tra Germania e Svizzera, dal 1414 al 1418. Un Concilio tra i più importanti della storia della Chiesa perché giunse a segnare la fine al cosiddetto “Scisma d’Occidente”.
Tutto era cominciato la mattina dell’8 aprile 1378 a Roma, quando – sotto la pressione rumoreggiante del popolo che reclamava a gran voce un papa italiano – s’era eletto al soglio di Pietro, con il nome di Urbano VI, il teologo e arcivescovo Bartolomeo Prignano. Il suo imprevisto rigorismo, l’abolizione dei privilegi e degli arbìtri d’alcuni cardinali, avevano fatto sì che un buon numero dei porporati più scontenti si riunisse in uno pseudo-conclave nel Palazzo Caetani di Fondi e vi eleggesse un anti-papa, ossia Roberto di Ginevra, cugino del re di Francia e dei conti di Savoia. Assunto il nome di Clemente VII, questi senza indugio si trasferì nel Palazzo dei Papi di Avignone. Alla sua morte, nel 1394, i cardinali francesi eleggeranno l’aragonese Pedro Martínez de Luna y Pérez de Gotor, col nome di Benedetto XIII.
Per ricomporre quello che ormai ufficialmente si dichiarava al mondo come la più possente frattura nella Chiesa dopo lo Scisma d’Oriente, venne indetto nel 1409 il Concilio di Pisa: che invano depose tanto Benedetto XIII, quanto Gregorio XII (succeduto a Urbano VI e a Bonifacio IX) e ancor più invano elesse un terzo anti-papa, il cretese Pietro Filargo, ossia Alessandro V. Il suo regno fu breve assai: spirato dopo solo dieci mesi, gli dovette subentrare Alessandro Cossa, con il nome (poi ben diversamente famoso) di Giovanni XXIII. Sì che, per dar un breve, necessario riepilogo, nel fatidico anno 1414 dell’era cristiana ben tre erano i papi regnanti: Gregorio XII a Roma, Benedetto XIII ad Avignone, e Giovanni XXIII a Pisa. Fatidico si dice quell’anno perché fu nel suo primo corso che Sigismondo di Lussemburgo, margravio ed elettore di Brandeburgo, re d’Ungheria e di Croazia e da poco incoronato re dei Romani (dal 1433 sarà imperatore del Sacro Romano Impero) costrinse Giovanni XXIII a indire un nuovo Concilio, naturalmente a Costanza, ossia nei territori dell’Impero.
La preparazione di tal Concilio fu imponente. Ogni nazione inviò le proprie personalità di maggiore spicco, ognuna con fastosi seguiti d’esperti e cortigiani: da Venezia e Padova i cardinali Zabarella, Correr, Barbarigo, Lando e Condulmier; da Napoli i cardinali Tommaso e Rinaldo Brancaccio; dal Ducato di Milano i cardinali Angelo d’Anna de Sommariva e Branda de’ Castiglioni (umanista celeberrimo questi e amico personale di Sigismondo: il suo volto è in un affresco del Masaccio nella Cappella Brancacci di Firenze). Da Roma giunsero Giordano Orsini, Oddone Colonna e Lucido Conti; dalla Castiglia Pedro Fernandez de Fria; da Genova e dalla Savoia furono inviati Antoine de Challant, Amedeo di Saluzzo e Ludovico Fieschi. Il maggior numero di porporati venne naturalmente dalla Francia: Pierre d’Ailly, Guillaume Filastre, Simon de Cramaud, Pierre de Foix e soprattutto il presidente del Concilio e decano del Sacro Collegio, il cardinale Jean de Brogny.
Era costui nato ad Annecy, nell’Alta Savoia nel 1342: i suoi biografi esitano sulla sua ascendenza e sul suo vero nome. Per alcuni apparteneva a una ricca famiglia borghese chiamata Allarmet, mentre altri sostengono (più probabilmente) che discendesse dalla nobile stirpe degli Alouzier de Brogny. Il giovane de Brogny aveva compiuto la sua formazione a Ginevra e ad Avignone. Presto vicario dell’arcivescovo di Vienne, nel 1378 era divenuto camerario, confidente e cappellano dell’antipapa Clemente VII. Nominato vescovo di Viviers nel 1380, dal 1381 al 1387 fece parte della Dataria Apostolica. Eletto cardinale sacerdote di S. Anastasia a Roma (1385). Dal 1389 al 1391 fu reggente della Penitenzieria apostolica; nel 1391 venne incaricato della Cancelleria apostolica, funzione confermata nel 1394 e che conserverà fino alla morte. Fu cardinale vescovo di Ostia e dal 1405 decano del Sacro Collegio. Nel 1409 ruppe con Benedetto XIII, favorendo la partecipazione della curia di Avignone al Concilio di Pisa. Eletto l’antipapa Alessandro V, questi confermò de Brogny nella dignità cardinalizia e nel titolo di Ostia. Un anno dopo egli stesso dovrà presiedere ai funerali di Alessandro V, deceduto il 3 maggio, partecipando (da papabile) al conclave che elesse l’antipapa Giovanni XXIII. Dal Concilio di Costanza uscirà rafforzato e confermato in tutte le cariche ricevute nel tempo da papi e antipapi. Amministrò a distanza le diocesi di Arles (1410-23) e di Ginevra (1423-26), diede vita a numerose committenze e fondazioni artistiche, tra cui nel 1406 la Cappella dei Maccabei nella Cattedrale di Ginevra, dove verrà sepolto nel 1428.
Oltre ai cardinali, era confluito a Costanza un ancor più cospicuo numero di prelati di rango episcopale o abbaziale: fra questi il vescovo di Londra Richard de Clifford, Jean de la Rochetaillée, patriarca di Costantinopoli dei latini, l’abate di Cluny e generale dei cluniacensi Robert de Chaudesolles, Bartolomeo della Capra, arcivescovo metropolita di Milano e, nell’ossequio generale, il grande teorico della musica Ugolino Urbevetano da Forlì, già prete-cantore di Santa Maria del Fiore a Firenze, poi arcidiacono del Duomo di Forlì e qui maestro di cappella. Un tal maestoso consesso di principi della Chiesa, per non dir dell’imperatore Sigsmondo e della sua corte, sfilò per le strade di Costanza e nella Cattedrale di Nostra Signora aprì solennemente il Concilio il 5 novembre 1414. Lo chiuderà il 22 aprile 1418, dopo quarantacinque sessioni.
Momenti e decisioni salienti ne furono la deposizione del papa del Concilio di Pisa, Giovanni XXIII, il 29 maggio 1415; le dimissioni del papa romano Gregorio XII il 4 luglio; l’elezione di Oddone Colonna come papa Martino V l’11 novembre. E più avanti l’allontanamento del papa avignonese Benedetto XIII il 26 luglio del 1417. Corollari invero sinistri del Concilio furono invece la cattura, la condanna e l’esecuzione di Jan Hus, il teologo boemo, già rettore all’Università Carolina di Praga, ritenuto eretico e seguace delle teorie (luterane ante litteram) di John Wycliff. Il 27 novembre 1414 Hus era stato invitato a Costanza per un incontro di “amichevole pacificazione” dai cardinali Pierre d’Ailly, Oddone Colonna, Guillaume Fillastre e Francesco Zabarella: contro ogni promessa venne fatto arrestare e incarcerare. Il lungo processo, il rifiuto di ogni abiura, la condanna e i dettagli orrendi della “coreografia” data alla sentenza, il rogo affrontato con fermezza e preghiera il 6 luglio 1415, rappresentano la pagina nera d’un Concilio per altri versi fra i più meritevoli della storia della Chiesa.
Il rogo di Costanza andò subito a coagulare e sollevare con violenza l’intero movimento hussita. Nel settembre del 1415, centinaia di nobili boemi e moravi avevano inviato ai padri conciliari e all’imperatore una formale nota di protesta contro l’accusa d’eresia che aveva portato alla condanna di Hus, da loro e dal popolo ritenuto un martire. L’immediata, furibonda reazione di Sigismondo ebbe a conseguenze sia una serie di crociate contro gli Hussiti in rivolta, che si trasformeranno in una lunga e difficile guerriglia e che avranno termine solamente nel 1436, con la disfatta delle forze papali e imperiali; sia l’effetto “collaterale” d’una persecuzione degli ebrei, destinata a toccare il suo culmine verso la fine del XV secolo. E tal nefasta risacca non si esaurirà nemmeno con la Riforma: i discorsi antigiudaici di Martin Lutero sono visti dagli storici come il punto di congiunzione tra l’ostilità incolta e superstiziosa del Medioevo e il ben più radicale e ideologico antisemitismo dell’epoca moderna e contemporanea.
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