Esistono tre paradossi che riguardano il tradurre: il paradosso del linguaggio; il paradosso della similarità e il paradosso degli intraducibili.

In primo luogo il linguaggio stesso è un paradosso perché è una facoltà universale che si manifesta nella diversità più estrema. Una diversità che talvolta si presenta come incommensurabilità, come impossibilità di far dialogare le lingue. Alla fine del settecento, alle origini della linguistica scientifica, Wilhelm von Humboldt, uno dei padri della nuova disciplina, era partito da questo punto per sviluppare la propria filosofia del linguaggio e trovare una soluzione alla eterogeneità radicale delle lingue che dovrebbe a priori rendere impossibile la traduzione. Ma il tradurre è un paradosso anche per una seconda ragione: perché è cercare il simile nel dissimile, che già in partenza sembra destinato al fallimento. Perché tradurre allora? Von Humboldt rispondeva in questo modo: la traduzione permette la relazione con “altre forme di umanità”, un incontro che è un vantaggio perché dall’incontro con l’altra umanità, si definisce la propria identità.



L’alterità interpella, interroga. Costringe alla risposta e la possibilità d’incontro sta proprio in quella risposta perché obbliga a uscire da sé stessi. Ecco allora che il tradurre è proprio quell’esperienza che è in grado di accogliere l’alterità senza volerla adattare al proprio sé, ponendo quel rapporto nella dimensione del rispetto. Trovare il simile nel dissimile appunto. In questo senso è il modello per qualunque incontro, per qualunque relazione. Che vuol dire, ad esempio, non tentare di inglobare l’altro, non volerlo rendere uguale a noi ma vuol dire anche non eliminare le tracce di quella cultura in cui la nostra identità si è costruita. Accogliere gli altri non significa cercare di renderli uguali, o pensare che lo siano, perché in questo modo eserciteremmo una violenza che priva entrambi dell’identità. Tradurre è allora porsi in quell’atteggiamento di rispetto innanzi il mistero a cui l’alterità ci chiama.



Si traduce dunque. Si traduce perché tradurre ha a che fare con la nostra umanità. Non si è mai smesso di tradurre, contro ogni paradosso, contro ogni impossibilità della traduzione. Si traduce e traducendo viene provocato quel movimento della lingua che crea universi cognitivi nuovi. In qualche modo potremmo dire che la storia della cultura dell’Occidente è stata caratterizzata proprio da questa creatività dovuta alla traduzione.

Una creatività che si scontra alle volte con ciò che può apparire intraducibile. Ed ecco il terzo paradosso: tradurre l’intraducibile, non lontano da quel dire l’indicibile che è dei mistici e dei poeti. È proprio l’intraducibilità, cioè l’incontro con una possibilità data dall’altra lingua che manca alla nostra, che provoca qualcosa di straordinario e la parola sconosciuta che non riusciamo a ridire crea spazi impensati. È come se si liberasse un varco del pensabile a noi prima sconosciuto. L’impensabile si palesa alla nostra mente proprio grazie alla lingua estranea. Qualcosa appare alla nostra evidenza perché c’è una qualche lingua che lo nomina e diventa così disponibile al pensiero. È l’opposto del senso comune secondo cui se qualcosa esiste può essere detto. È invece perché qualcosa può essere detto che ci appare in tutto il suo nitore. Ci illumina. Si possono creare spazi minuscoli come accade nel caso di gurfa, che in arabo è l’acqua che si può tenere nell’incavo della mano, piccoli spazi che ci dicono però della diversa relazione che si può avere con la stessa realtà che abbiamo sotto gli occhi, o si possono inaugurare intere culture quando concetti importanti per una comunità viaggiano attraverso le culture nei momenti di passaggio e trasformazioni. Traducendo l’intraducibile si scopre un’altra maniera di stare al mondo che apre al nuovo, che ci obbliga a ripensare e ricreare il nostro universo di conoscenze. Allora è un pensare nella lingua, è una filosofia incarnata perché crea nuova conoscenza che senza la traduzione non potrebbe esistere.



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