Stefano Arduini ha scritto un libro sui “libri” – tà biblía, la Bibbia; su chi l’ha scritta, chi l’ha tradotta e chi ha dato un “okay” alla traduzione (Traduzioni in cerca di un originale. La Bibbia e i suoi traduttori, Jaca Book, Milano 2022). Ma non è una storia sui testi sacri. È il racconto di un’esperienza, che accomuna tante comunità diverse, che in modi diversi si affidano a Dio. In primo piano è l’esperienza di chi scrive, di chi traduce, di chi accoglie la traduzione. Ma chi sono costoro? E di che libri si tratta? Vengono prima i libri o gli autori? E chi sono i traduttori e i garanti della traduzione?
La storia è nota; proviamo qui a riassumerla in modo sommario. Bibbia – dal plurale greco di bíblion, “libro” – è il nome usato per indicare una biblioteca di componimenti, raccolti e ordinati in vari modi differenti. Per gli Ebrei vige il tanak, da Torah “legge”, Nevim “profeti”, Ketuvim “altri scritti”. La Torah è il Pentateuco, che consta di Genesi, Esodo, Numeri, Levitico, Deuteronomio. Della Torah, la versione accolta come autorevole presso la comunità degli Ebrei palestinesi è un mix di fonti, che risalgono, secondo gli esperti, a quattro tradizioni, indicate ciascuna con una lettera: J è la jahvista perché i testi si riferiscono a Dio come Jahvè, mentre la tradizione E o elohista usa Elohím “il Signore”. La jahvista, che viene dal regno di Giuda, al sud, è fatta risalire al X secolo a.C. circa ed è ritenuta più antica di un centinaio d’anni rispetto alla elohista, che è del regno di Israele, al nord. Vi è poi D, la fonte deuteronomista, di qualche secolo successiva e così chiamata perché ad essa risale gran parte del Deuteronomio (la “seconda legge” perché rivisita le vicende dell’Esodo); la lettera P indica la tradizione detta sacerdotale (perché viene dai sacerdoti, i quali interpretano l’identità ebraica come osservanza del culto e della legge mosaica e non come sudditanza a un re – in questo caratterizzandosi rispetto agli altri popoli); è collocata durante e dopo l’esilio, verso il VI secolo a.C., quando l’aramaico cominciò a soppiantare l’ebraico come lingua parlata.
Generazioni e generazioni di saggi hanno commentato oralmente la Torah scritta. Sorse così la Torah orale e verso il III secolo d.C. (Arduini scrive e.v., era volgare) questa fu codificata nei Mishnah, 63 trattati che – riprendendo passi della Torah – diedero forma sistematica alla legge ebraica. Anche la Mishnah fu ampiamente spiegata; unita a questi commenti, chiamati Gemarah, essa produsse il Talmud, “lo studio”: i commenti della Gemarah sono in aramaico, mentre le citazioni bibliche sono in ebraico. Nel Talmud, insieme alla Mishnah e alla Gemarah confluirono poi anche vari altri testi (consigli, informazioni, resoconti di fatti storici), chiamati Haggadah (“racconto”). Tutto questo apparato di insegnamenti completa, come spiegazione e chiarimento, la Torah scritta.
Non tutte le comunità ebraiche accettarono il Talmud, perché temevano che l’autorità della Torah scritta fosse sminuita dai commenti talmudici. Anche per queste ragioni, fu avvertito il bisogno di trasmettere la Torah con studio e accuratezza. La versione più autorevole del coacervo di documenti che forma la Torah scritta fu elaborata fra il VI e il X sec. d.C., per opera di copisti ebrei che corredarono il testo di note filologiche e linguistiche, secondo le tecniche della Masorah (“legame”, “tradizione”); per questo, furono detti Masoreti. Il più antico codice rimasto, in cui sia riportato il complesso della Bibbia ebraica, è del IX secolo d.C., dunque secoli e secoli dopo che le quattro tradizioni si erano configurate. E le odierne edizioni critiche di riferimento, uscite in varie edizioni tra gli inizi del Novecento e i primi anni del Duemila, si basano tutte su di un manoscritto prodotto al Cairo nel 1008 o nel 1009, il Codex Leningradensis: si trovava nella Biblioteca Imperiale di San Pietroburgo da metà Ottocento; i filologi se ne servirono però dopo che, nel nome della città, Pietro fu sostituito da Lenin. La città è tornata a Pietro, ma il codice resta legato al nome del “salmone” (sotto il potere sovietico era l’abituale riferimento scherzoso alla “cara salma” di Lenin, custodita al Cremlino). Anche questo è un “legame”, una “tradizione”, seppur non masoretica.
In epoca ellenistica, circa un millennio prima che la Bibbia ebraica fosse organizzata secondo la tradizione masoretica, il re Tolomeo II Filadelfo, seguendo i consigli di Demetrio Falereo, bibliotecario reale e dottissimo tra i dotti, aveva disposto che la Torah ebraica fosse tradotta in greco. Si narra che da Israele fossero giunti ad Alessandria settantadue saggi traduttori – sei per ognuna delle dodici tribù – che in settantadue giorni compirono l’opera. Avvenne poi che i più anziani dei traduttori, insieme ai sacerdoti e agli esponenti più autorevoli della comunità dei Giudei di Alessandria unanimi avessero dichiarato che la traduzione fosse ottima e da mantenere così come era – seguirono maledizioni su chi avesse osato mutarne parte. Così narra una tradizione, giunta fino a noi, che muove i passi da una Lettera scritta, forse a metà del II sec. a.C., da Aristea, il quale doveva essere un ebreo ellenizzato. La storia fu ripresa da Filone d’Alessandria, poi da Giuseppe Flavio e via via da altri.
La Settanta, che prende il nome dai molti traduttori radunati al Faro di Alessandria da Tolomeo II, era destinata alle comunità ebraiche ellenizzate, che non capivano l’ebraico della Torah. Per lo stile, era vicina all’originale e non ambiva all’ingresso nella letteratura greca. Fu invece Giuseppe, con le Antichità Giudaiche, a riscrivere la Bibbia, modernizzando, adattando e formando un testo nuovo, un originale che si allontanava dalla fonte. Sembra che, nella prospettiva di Giuseppe, l’approvazione dell’opera tradotta non fosse data dalla comunità una volta per tutte, ma fosse necessaria una continua revisione che tenesse conto dell’esperienza della comunità.
Nelle successive numerose riscritture e adattamenti di testi biblici in greco i traduttori furono alle prese con il compito di mediare fra culture in rapporto spesso conflittuale. Avvenne poi che la Settanta, integrata con i libri storici, i libri dei profeti e altri libri ancora, fosse presa a modello dalle comunità cristiane. Così gli Ebrei se ne allontanarono e lavorarono a una nuova tradizione testuale in cui riconoscersi – ed ecco l’impresa dei Masoreti, che mirava a una Torah accurata e fedele all’originale. Ma l’originale era poi l’interpretazione data dai saggi e dalle persone autorevoli della comunità… e l’interpretazione rifondava il testo, in un moto continuo che rivela aspetti sempre nuovi del senso dell’alleanza.
Insoddisfatte, tuttavia, erano anche le comunità cristiane: dall’Italia all’Africa alle Gallie, il mondo latino aveva bisogno di tradurre per rinnovare il testo alla luce dell’incarnazione, morte e resurrezione di Gesù, vero Dio e vero uomo. Dopo varie imprese, i cui risultati sono oggi raggruppati sotto l’etichetta di Vetus latina, papa Damaso – e siamo nel IV secolo – incaricò Girolamo di ritradurre l’intera Bibbia. E lui si mise al lavoro; con saldo metodo filologico, dopo aver vagliato ogni versione, si basò sul testo ebraico, e dopo decenni, verso il 405, concluse la traduzione dell’Antico Testamento, come pure la revisione dei Vangeli; al resto del Nuovo Testamento lavorarono collaboratori di Gerolamo, che aveva un brutto carattere e litigò un po’ con tutti, dal papa ai suoi aiutanti fino ad Agostino d’Ippona. Quest’ultimo criticò l’abbandono della Settanta come fonte per la traduzione: vi vedeva il rischio di divisione della comunità cristiana. Gerolamo gli rispose con parole riassumibili nel motto milanese ofelee fa el to mestee. Il filologo non sopportava le semplificazioni del filosofo. E anche la storia che abbiamo raccontato qui è un po’ abborracciata. Riprende in parte la narrazione di Arduini, ma ne salta molti particolari.
Tuttavia, l’obiettivo dell’autore – studioso dell’esperienza chiamata traduzione e traduttore egli stesso – non è una storia della Bibbia; piuttosto, a lui preme ripensare l’esperienza della Bibbia per mostrare i caratteri della traduzione come avvenimento che coinvolge una comunità. Uno degli snodi della sua riflessione è a p. 32, là dove egli riprende un passo di Riccardo Shemuel Di Segni: “Il Talmud è un’opera aperta nel senso che le sue discussioni nella maggior parte dei casi non portano a una conclusione”. Segue il commento di Arduini: è come se Dio “avesse voluto comunicare che la verità non è data una volta per tutte ma è frutto di continue riletture, riscritture e interpretazioni umane che si comprendono, come suggerisce Levinas, a partire dall’esperienza della vita”. A ogni comprensione che muova dall’esperienza di una comunità corrisponde una riscrittura del testo, che si manifesta in molte versioni, tra loro intrecciate. E la scoperta dei manoscritti di Qumran, che sono fatti risalire a un periodo tra il III secolo a.C. e il I secolo d. C., ha rivelato che un originale “esiste, ma non è un testo. Non è qualcosa di fisso, non è un oggetto. È piuttosto un movimento del senso che si manifesta nella molteplicità e si realizza nella varietà di tradizioni testuali” (p. 46). Il confronto di manoscritti aiuta in parte, ma non aiuta del tutto, chi voglia comprendere (nel senso di ted. auffassen) la Bibbia come un avvenimento testuale, che si rinnova costantemente, producendo senso nuovo a ogni traduzione.
Al centro della riflessione è l’esperienza umana del tradurre, che si caratterizza variamente a seconda del tipo di azione comunicativa intrapresa. Se chi traduce persegue uno scopo, segue che, a seconda dello scopo, la traduzione si manifesta come riscrittura, oltrepassamento di confini, interpretazione. Arduini riprende la terminologia usata nell’antichità di Greci e Romani per denotare l’azione del tradurre: per i Greci è uno stare sul confine per “portare oltre”, riplasmare adattando, rendendo chiaro ciò che è opaco perché “altro”, inaccessibile. Per chiarire serve una hermenèia, una traduzione che può esser svolta da chi si pone nel territorio intermedio fra i confini culturali – uno spazio che rende possibile uno sguardo capace di vedere ciò che lontano dal confine non è commensurabile.
Tradurre è molte cose: è rendere in modo letterale, là dove è richiesto dal tipo di testo considerato (p.es. nelle traduzioni di testi specialistici); è rielaborare offrendo soluzioni equivalenti per il senso; è adattare un testo a categorie di altre culture; è ricostituire un senso, dando un’interpretazione a ciò che ad altri è inaccessibile. L’interpretazione è un tipo di traduzione; anzi: in modo generico, nell’esperienza del tradurre rientra ogni atto umano che miri a comprendere ciò che è avvertito come “parola di altri” – del resto, ogni individuo fa esperienza dell’alterità semantica nella vita quotidiana, quando affronta il compito della comunicazione verbale. Per questo, la storia della Bibbia descrive la comunicazione umana, che è condivisione incessante di un’esperienza sempre nuova, il cui senso mai è esaurito dalle parole, perché in ogni testo vi è una sovrabbondanza di senso – traccia di un Autore che è oltre tutti gli autori di tutti i tempi.
La lezione strutturale del maestro Luigi Heilmann offre ad Arduini la chiave per comprendere che cosa avvenga “ai margini”, là dove si riconoscono le differenze e si rielaborano le culture, cambiandole. Del resto, le culture, cioè le lingue, cambiano anche per ribadire un’identità messa in crisi nel confronto con l’altro. La crisi è il momento decisivo, in cui si delinea un cambiamento che rinnova la cultura e la vita di una comunità. Stefano Arduini mostra come la Bibbia sia luogo di incontro fra culture e lingue – purché si interpreti il testo in modo autenticamente critico, cioè alla luce dell’esperienza fondamentale per la comunità.
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