In tempi di drammatica crisi, come quella a cui assistiamo impotenti in Palestina, ricevere in regalo un testo di Sholem Aleichem, trovato casualmente in un mercatino, può avere il sapore di un presagio. Sholem Aleichem è la nota espressione ebraica “la pace sia con te”. La scelse come proprio pseudonimo Solomon Rabinovitz. Wikipedia ci informa che fu uno scrittore e drammaturgo ucraino di origine ebraico-russe, tra i padri fondatori della letteratura moderna in lingua yiddish. Emigrò in vari Paesi a causa dei progrom russi a Kiev contro gli ebrei, assieme alla famiglia, e finì poi negli Stati Uniti, dove morì nel 1916. Il testo pescato in quel mercatino da un’amica diligente è Tredici Robinson, pubblicato nel lontano 1907. Forse dimenticatissimo, oggi, ma non tanto in Germania, dove a volte è ripescato come testo teatrale. E comunque quest’edizione inconsueta, a cura di Stefania Ragaù, con una sua eccellente prefazione, è recentissima, del 2023 (pubblicata da Edizioni di storia e letteratura).
Perché parlarne? Nel sottotitolo c’è la chiave del racconto, che ha tratti ironici e umoristici: “Ognuno diceva la sua. Tredici teste, tredici opinioni”. Sholem Aleichem immagina che tredici ebrei, diversissimi gli uni dagli altri e provenienti da luoghi altrettanto diversi, naufraghino su un’isola che credono deserta e che è però piena di ogni ben di Dio.
Il racconto del famoso Robinson, l’archetipo dei naufraghi, godeva, al tempo, di grande popolarità e Rabinovitz lo prende a pretesto. Nonostante l’abbondanza che l’isola assicura, i tredici litigano su qualsiasi cosa, pur tentando di realizzare la prima repubblica ebraica. L’autore descrive puntigliosamente le tredici diverse identità dei naufraghi: un sionista, un territorialista, un capitalista, un ortodosso, un ateo, un socialista, un nazionalista, un assimilazionista, un idealista, un materialista, un operaio, una donna. E naturalmente uno scrittore, che parla in prima persona. Ovvero, indirettamente, lui, Sholem Aleichem.
Se a qualcuno è capitato di analizzare la composizione del governo di Benjamin Netanyahu o del parlamento israeliano, non vedrà molte differenze dai naufraghi del racconto. E le divisioni sembrano squassare sempre più il popolo israeliano. Rabinovitz conosceva bene la sua gente. È ovvio che Sholem Aleichem scrive ben prima della nascita dello Stato d’Israele, tant’è che c’è chi legge anche nel numero “13” un riferimento alla prima confederazione delle tredici colonie americane. In effetti c’è stata anche un’epoca in cui, nel mondo ebraico, c’era chi sognava la California come terra promessa.
In proposito gira una barzelletta eloquente, rammentata dalla Ragaù. Dio chiede al balbuziente Mosè di indicargli quale preferenza avesse come terra promessa. E Mosè, con grande fatica, inizia lentamente a sillabare “Ca… Ca… Ca…” senza riuscire a concludere. L’Onnipotente misericordioso allora gli viene incontro: Intendi dire Canaan, la Palestina? Grande umiltà dimostri, scegliendo un territorio così desertico e petroso! Sarai accontentato! Ovviamente Mosè se la prende con sé stesso, poi, per non essere riuscito a pronunciare “California”.
Ma al di là delle interpretazioni del testo – del quale non sveleremo il finale – e della sua venata ironia, la sua lettura innesca una domanda. Anzi più d’una. Cosa tiene assieme il popolo ebraico? Perché, in qualche modo e pur con la mille varianti e divisioni che lo caratterizzano, anche senza scomodare i tredici Robinson, occorre pur registrare che quel popolo resta tale, pur diviso, orgoglioso della propria identità. E cosa potrebbe spingerlo alla pace coi vicini che tutti invochiamo e pretendiamo?
Naturalmente la risposta alla prima domanda per molti è apparentemente facile: Israele è tale, resiliente oltre ogni misura, per sopravvivenza, per non essere cancellato dalla storia. Ma ora questa sopravvivenza tenace va drammaticamente a scapito di un altro popolo. Possibile che non ci sia una soluzione? L’amica di cui sopra, che pescò Tredici Robinson da un mercatino prezioso, ha una risposta più profonda, che ci interpella tutti.
Stanno assieme per una “elezione”. Scelti, eletti. E non stiamo qui a disquisire se sia storia divina o autoconvinzione “politica”. È un fatto, storico, che ha attraversato i secoli. Così, stanno assieme per una attesa, una promessa. Per un Messia di cui non conoscono la carta d’identità. Per una realizzazione di pace e giustizia che però non sembra all’orizzonte, contraddetta da loro stessi, e che forse non è decodificata da millenni. Ci hanno provato degli ebrei a squarciare quell’orizzonte non chiarito. Uno di questi, Paolo di Tarso, ha speso l’intera vita per dire che quella promessa di pace e giustizia che ancora tiene assieme questo popolo era, anzi è per tutti i popoli. Non solo per uno.
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