Nelle ultime settimane le cronache estere hanno riportato con dovizia di immagini e carenza di analisi agitazioni di piazza a Cuba e in Ungheria. Sia preliminarmente chiaro che si tratta di due situazioni profondamente diverse, strutturalmente incomparabili. Il popolo cubano sconta a valle un grave problema politico sorto da tempo a monte: schiacciato dalle ristrettezze per i blocchi alle forniture, esprime un’esasperazione che il governo dell’Havana non sta ancora affrontando ma di cui non può dirsi il solo bersaglio.



A Budapest è forte l’allarme delle diverse minoranze civili del Paese (in questa fase i rappresentanti della comunità Lgbt prima ancora dei non numerosi oppositori politici). Orbán sta giocando su questo terreno il suo corso ormai radicato di legislatore nazionalista, antieuropeista e cristiano. Lo fa persino bene sul piano dell’immagine: ha ingenerato l’idea che un leader tradizionalista possa essere un nazionalista, nonostante la storia politica del cristianesimo conservatore abbia sempre guardato con un certo sospetto il concetto della nazione, preferendo altre declinazioni dell’agire sociale (prime tra tutte, i “corpi intermedi”, che all’assolutismo neutralistico dello Stato prediligono il fermento del fenomeno associativo).



Non analizzeremo qui il divenire delle due situazioni concrete. Sembra preliminare notare invece la sgradevole sensazione che i resoconti esteri hanno ingenerato nei frammenti di opinione pubblica che li hanno seguiti. Il flusso delle informazioni, caotico e non selettivo, rende difficile farsi un’idea, un posizionamento onesto basato sull’interazione consapevole tra fatti oggettivi e preferenze soggettive. Le categorie consolidate di lettura della politica globale (atlantismo contro americanismo, post-sovietismo e occidentalismo, riformismo secolare e teocrazia nel mondo arabo) tendono a sfarinarsi: le seguono in modo sempre più ortodosso porzioni sempre più minoritarie e sempre più fragorose della società politica.



E anche all’interno di queste frange quante faglie un tempo impensabili: da osservatori esterni ci si riesce a dividere molto più che nell’agone interno, nel quale in effetti ci si percepisce impotenti. Come a dire, dove non c’è più forza per una partecipazione responsabile sorge l’impero dell’opinione fungibile, parziaria, mutevole.

Lo avevamo notato negli anni in almeno tre circostanze. In principio e da tempo e per molto tempo sarà, nel rapporto tra Repubblica popolare cinese e diritti umani: lo stesso governo sotto cui milioni di cinesi sono usciti dalla soglia di povertà è quello che ha una serie di dossier scomodi (pena di morte, controllo della stampa, status degli uiguri musulmani, diritto sindacale, carenze informative sull’inizio della pandemia). Una polarizzazione così estrema di valutazioni esterne malamente elogiative o esclusivamente negativistiche riguarda Erdogan e il governo turco: chi lo ritiene un baluardo antiterrorismo, chi sottolinea le violazioni sistemiche sul fronte delle libertà civili. E va pur detto che un caso recente fu ancor più indicativo di un mondo che non sa più leggersi, di un’opinione pubblica che non ha più orizzonti di senso stabili cui ricondursi: il conflitto tra Ucraina e Russia – qualcosa, ricordiamolo, costata morti e prigionieri, non solo post su Facebook e bandiere bruciate. La sinistra e la destra estreme saltellavano in quei mesi difficili tra gli insorti russofili di Kiev e l’integrità territoriale ucraina. Chi aveva ragione? Perché abbiamo perso la capacità-possibilità di comprenderlo? Come mai agli estremi si replica, come dischi inceppati, ossessivamente e acriticamente per una e una sola possibilità?

Si badi come questa postura psicologica di massa abbia precisi risvolti anche negli affari interni, laddove si creano blocchi ciechi e aprioristici privi ormai persino del tratto chiarificatore di una prospettiva ideologica comune. Se guardiamo alla storia dell’ultimo decennio, senza confinarla al dualismo “cronaca torrenziale ma inesatta-commenti immediati sulla rete”, forse le sole Primavere arabe nonostante le abissali contraddizioni hanno generato modificazioni interne di rango costituzionale.

Dopo almeno un trentennio di globalizzazione economica, politica e culturale, entriamo o così pare in una fase successiva (ma non ci affrettiamo a chiamarla post-globalizzazione o globalizzazione liquida). Il villaggio globale esiste, ma è affollato di inevitabili “varianti”: il mondo unico non può prescindere, né forse sa farlo, dai suoi contesti particolari. In quei contesti però le trasformazioni di sistema tendono ormai ad avvenire fuori dai movimenti popolari, i quali, per inciso, si uniscono per lotte sovente promiscue e parcellizzate, che per lo più indeboliscono la loro attitudine al cambiamento.

In Italia, ad esempio, ogni fase dell’emergenza pandemica ha avuto la sua fronda di piazza, rumorosissima e molto seguita dai media, ma incapace di tradursi (e ben venga, se non si ha idea di cosa fare!) in mobilitazione collettiva. Chi non voleva le chiusure e chi esigeva le riaperture, chi voleva i vaccini tutti uguali e chi non voleva alcun vaccino, chi tifava per i ristoranti, chi per le discoteche, chi sempre e comunque contro il green pass (la cui valenza certificativa mi sembra invece a prima vista tutto fuorché assolutamente incostituzionale). L’ansia di schierarsi e farsi in se stessi posizione, gruppo, strumento di pressione, mobilita pezzi più piccoli per meno tempo e apparentemente movimenti e partiti che resistono al medio periodo sono proprio quelli che hanno gli strumenti linguistici più sbrigativi per catturare il più possibile questi visibili segmenti della rissa diametrale, ben diversa da un’opposizione consapevole di proposta politica. E l’impossibilità della rivolta vuol dire palla in tribuna e rumore costante.

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