In questo periodo di confusione e di incertezza sul futuro si sente con urgenza la necessità di parole, di fatti, di esperienze che tocchino il cuore in profondità. Rispetto a una vita che ci mette di fronte alla contraddizione, al dolore, al vuoto si desidera, perciò, guardare e leggere storie umane e testi che aprano una via diversa dalla chiacchiera e dall’opinione comune.



Il volume di Pavel Florenskij, Simboli dell’Eternità. Meditazioni e preghiere, a cura di Anežka Žáková e Lubomir Žak, Lipa 2020 è un aiuto prezioso e una compagnia significativa, proprio ora. Raccoglie alcuni testi inediti di Florenskij, curati con precisione filologica e profonda conoscenza dell’anima del “Leonardo da Vinci russo”.



Lubomir Žak, studioso slovacco, in special modo, ha dato, nel recente passato, un contributo decisivo alla conoscenza dell’opera di Florenskij, grazie a una ricerca e a una dedizione straordinarie. Numerosi suoi contributi, a livello scientifico e divulgativo, hanno reso possibile apprezzare l’opera del filosofo russo anche in Italia.

E tale opera è necessaria, perché viva, autentica, generativa. E lo è in quanto è stata scritta con la carne e con il sangue, con la testimonianza resa da un uomo come noi, seppure così geniale e poliedrico. Molte delle sue sofferenze e delle false accuse rivoltegli sono state ricostruite da V. Šentalinskij nel libro I manoscritti non bruciano. Gli archivi letterari del Kgb (Garzanti 1994). E la pietà della storia ci consegna anche la foto di Florenskij, dopo gli estenuanti interrogatori del servizio segreto sovietico. Non la si può guardare senza commuoversi. Uno studioso disfatto dalla rovina di un Potere capace di generare solo polvere e cenere. Ritratto nella sua vulnerabilità e nella sua spaurita fragilità.



Ma com’è stato possibile allora che quell’uomo perseguitato e scosso interiormente, negli anni della prigionia, sia riuscito a produrre brevetti, ad amare, scrivere e persino autoaccusarsi di crimini non commessi, per salvare la vita di altri? Qual è il suo segreto?

Dai suoi testi emerge uno come tutti, uno di noi, ma dominato dalla coscienza di una strutturale povertà e dal bisogno di esser tenuto da, retto da per non essere schiacciato dalla storia. Una storia simile a un Minotauro cieco, in grado di inghiottire milioni di persone.

Così scrive, il genio russo, cosciente della sua strutturale e radicale dipendenza ontologica: “Signore dolce! Sento il triste freddo della disperazione…/ La pioggia ha iniziato a battere … il vento si agita, flagellando i finestrini con le foglie. Di nuovo non so amare…/ O Cristo vieni da me! Vorrei poter volere, ma sono senza forze, invano tento di strapparmi da me stesso … Solo come un bronzo risuona il cuore vuoto … Scricchiolano gli alberi … Ma il forte vento, abbattendosi, dalla tomba sovrasta i lamenti dei rami”.

Florenskij, dunque, non censura la propria ferita, intercettando, con sensibilità, la possibilità di attraversare un tempo duro e ostile – più gelido del ghiaccio delle isole Solovki –, grazie al riconoscimento di un’alterità generativa in atto. E perciò, in un altro testo, si rivolge con tutto se stesso a un Tu: “Signore! Solo Tu … Tu soltanto”.

Quando la vita si presenta, insomma, come un tradimento delle proprie attese, come una distruzione delle certezze, non basta più la disciplinata obbedienza a una dottrina o la ricerca di una forza morale al proprio interno: l’onda non si arresta. Si ha bisogno, perciò, di dire un nome, uno solo: l’ultimo, quello decisivo. Nella tradizione ortodossa, il Nome invocato non è un’emissione vocale, ma è/ha un’energia, una forza attiva ed efficace nel qui e ora. E si dona, per Grazia, come Amore incontenibile e ineffabile, rendendo in grado di guardare l’altro – anche l’estraneo o il nemico – nel suo cuore cherubico, nel suo esser stato pensato in modo diverso dall’esser rapace e/o omicida. Ed è proprio questo che rende possibile ciò che cambia il cuore dolorante: “Nonostante irrori lacrime il mio cammino verso di Te, o mio Creatore, credo, mio Dio, e so che sto andando per il giusto sentiero”.

Misteriosamente, Gulag, gelido freddo, umiliazione dell’intelligenza e fucilazione costituiscono per il genio russo un cammino al Destino che non ha fine e ci parla ora, proprio ora, attraverso le parole viventi di un’esperienza.

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