Diceva il “Migliore”, soprannome di Palmiro Togliatti negli anni del comunismo dilagante in Italia, che “la destalinizzazione era una parola buona per istruire i fessi”. È solo una delle tante perle che il segretario del Pci ha regalato alla sinistra del popolo italiano e non solo. Togliatti fu un implacabile critico, ad esempio, dell’innovatore Nikita Kruscev dopo il 1956, quando il leader sovietico presentò al XX congresso del Pcus il “rapporto segreto” sui crimini di Stalin. E poi ancora quando, nel 1961, dopo il XXII congresso (quello dell’autentico tentativo di svolta), si inserì nel dibattito tra i partiti comunisti in chiave anti-krusceviana, con manovre tanto ambigue che Kruscev lo definì un “golpista”.



Nella mentalità di Togliatti non c’era alcuna discontinuità neppure tra Lenin e Stalin. Insomma, l’Urss era un “faro” che non poteva essere mai messo in discussione in tutta la sua storia, anche quando invase l’Ungheria. Mentre a Budapest i carri sovietici ammazzavano per strada 30mila persone (ufficialmente), Togliatti diceva a Pietro Ingrao, che ha scritto di essere rimasto triste: “Questa sera berrò dell’ottimo vino”. Insomma, per il “Migliore” la strage degli insorti ungheresi contro il comunismo era una festa.



La premessa che abbiamo fatto serve a prepararci, tra circa un mese, al tragico festival dei ricordi parziali del centesimo anniversario della nascita del Pci con la scissione di Livorno del 21 gennaio 1921. I ricordi “in libertà” sono già incominciati e chissà per quanto tempo continueranno.

Giovedì ci ha provato Domenico Bilotti. Con un articolo ha spiegato che “la logica del dopo è sempre miope”, e poi presenta un Filippo Turati ottocentesco e un Antonio Gramsci che riesce già a presentire il futuro. In conclusione, quindi, “quella scissione rappresentava il conflitto del suo tempo, non l’alibi del suo futuro”.



È inutile ricordare che l’Italia nelle classifiche internazionali è tra i paesi quasi da primato nel cosiddetto “analfabetismo funzionale”. Ma più preoccupante sono i fattori educazione, insegnamento, studio della storia che fanno impressione in certe ricostruzioni e considerazioni fuorvianti e disinformate.

Prevale sempre la preoccupazione tipicamente italiana, patria del cattocomunismo che diventa ideologia nazionale, che finisce per mescolarsi con l’interventismo a senso unico delle procure negli anni Novanta, per difendere una realtà di sostanziale immobilismo e una storia immaginaria, dove il Pci non sarebbe mai stato un partito comunista legato all’Urss fino alla caduta del Muro di Berlino e sarebbe invece l’artefice dell’autentico riformismo italiano.

Forse sfugge a tanti intellettuali italiani che è sempre esistito un socialismo riformista che accettava il metodo delle democrazie. Esisteva all’estero con grandi personaggi come Karl Kautsky (il famoso traditore per Lenin), come Eduard Bernstein, come Georgi Plechanov, a cui si legavano i riformisti italiani come Turati, Anna Kuliscioff, Treves, Matteotti: tutti quanti impegnati in Occidente per un rafforzamento della democrazia, per la tutela delle classi lavoratrici, per un consolidamento della tenuta sociale, con il ripudio delle diseguaglianze spaventose del capitalismo più becero, ma ripudiando al contempo violenza, rivoluzioni e dittature, con un profondo rispetto del pluralismo.

Sotto la regia del Komintern, e i pasticci successivi e incredibili di Giacinto Menotti Serrati, si consumò la tragedia della rottura della sinistra proprio mentre il fascismo avanzava e che poi un comunista intelligente come Angelo Tasca documentò in un libro, naturalmente, dimenticato: Nascita e avvento del fascismo, dove gli errori della sinistra e del massimalismo sono documentati con scrupolo.

Al congresso di Livorno tra i personaggi che aderiscono al Komintern attraverso la sottoscrizione dei famosi 21 punti, ci sono personaggi come Amedeo Bordiga, tollerato e aiutato indirettamente in seguito dal cavalier Mussolini, e poi Nicola Bombacci, quello che fu arrestato a Dongo e finì a piazzale Loreto accanto al Duce, che Bombacci aveva riscoperto socialista. Qui siamo al grottesco tragico, ma anche Antonio Gramsci, ricordato sempre con rispetto, dal ’24 al ’26 spara delle cantonate da rabbrividire: Giacomo Matteotti era un “pellegrino del nulla”: quindi gridava contro il “semifascismo di Giovanni Amendola, Luigi Sturzo e Filippo Turati”. Così venivano trattati da Gramsci gli “aventiniani” che ebbero almeno il coraggio di una rivolta morale contro il fascismo.

A ben vedere, il cosiddetto “riformismo” togliattiano è un tatticismo da brividi che arriva al termine di una serie infinita di errori e orrori. Si legga bene Dimitrov (Diario), i libri di Elena Aga Rossi e Viktor Zaslavsky, i numerosi testi di Ugo Finetti e si comprenderà “l’Alfredo” che gli spagnoli che combattevano contro Franco non sopportavano; il “Mario Correnti che strologa a Radio Milano” da Mosca per accettare alla fine il diktat notturno di Stalin che diventa la svolta di Salerno. In Spagna, Togliatti stigmatizza anche la brigata di Carlo Rosselli e definisce il suo libro Socialismo liberale in questo modo: “Si collega in modo diretto alla politica fascista”.

Poi nel dopoguerra denuncia la continuità tra De Gasperi e Mussolini. A proposito dell’articolo 7 della Costituzione, è vero che l’ambasciata sovietica a Roma diede il via libera all’approvazione, ma bisognerà attendere il 1984 perché il così poco simpatico Craxi a Bilotti rinnovi i Patti Lateranensi, togliendo dal testo che la religione cattolica è la religione di Stato, cioè dicendo che lo Stato italiano è innanzitutto uno Stato laico.

Guardando sia alla scissione di Livorno sia al personaggio Togliatti, la logica del dopo la esprimono meglio di tanti Umberto Terracini e Camilla Ravera che, nel 1969, diranno che a Livorno aveva ragione Turati. Certo, 48 anni per capire è un record, ma è sempre meglio che rimuovere o usare la cosiddetta “terapia dell’oblio”, oggi tanto di moda e oggetto di un libro di Paolo Mieli.

Veniamo quindi al dopo Togliatti, che minaccia Giorgio Amendola nel comitato centrale del novembre 1961, con delle conclusioni che appariranno… nel 2008. Poi il periodo di Luigi Longo, con la sua “resistenza tradita”, quella di cui era capo fino al 28 aprile 1945 Alfredo Pizzoni, completamente dimenticato, mai onorato, eppure decisivo durante i “patti di Roma” del novembre 1944 quando concorda con Harold Macmillan, presenti Giancarlo Pajetta, Ferruccio Parri ed Edgardo Sogno, gli aiuti alla Resistenza in un momento di sofferenza.

Ritorniamo al riformismo, quello che non piace tanto a Bilotti. Nel 1977 Willy Brandt, il capo della socialdemocrazia tedesca, inaugura la ricostruzione della casa di Marx a Treviri distrutta dai nazisti quarant’anni prima. E l’onore di commemorare Marx Willy Brandt lo assegna al giovane riformista Bettino Craxi, eletto da un anno alla segreteria nazionale del Psi. Di fatto, è Craxi che, nel 1980 al congresso di Palermo, rifonda la corrente riformista, che un tempo si definiva autonomista perché riformista era da anni un disvalore persino nel Psi.

E il Pci, passato sotto la guida di Enrico Berlinguer, che cosa fa? Prima vara la politica di unità nazionale e si sbilancia a difendere persino la Nato, quasi prendendo le distanze dall’Urss. Ma poi il 9 ottobre del 1978 c’è un incontro a Mosca tra Breznev e Berlinguer. Breznev si dimostra brusco e accusa Berlinguer di appoggiare un governo che è legato alla macchina americana e alla Nato. Il segretario del Pci si allinea. È da quel giorno che crolla la politica di unità nazionale, liquidata dagli stessi comunisti. Berlinguer si distinguerà per la politica contro gli euromissili, che erano la risposta agli SS-20 piazzati dai sovietici contro le più grandi città europee e poi per la famosa “questione morale”, che sarà il trampolino di lancio per i Di Pietro, i Davigo e compagnia cantante. Intanto evapora l’eurocomunismo, che pare solo una definizione giornalistica.

Nel suo cosiddetto riformismo Berlinguer non abbandonerà mai i principi del marxismo-leninismo, attaccando Giorgio Amendola in un drammatico comitato centrale del novembre del 1979. Il 2 agosto 1980 dirà nell’intervista a Scalfari: “A me sembra del tutto vivente e valida la lezione che Lenin ci ha dato”. È un Berlinguer che ritorna all’ovile dell’Urss e che già aveva rifiutato qualsiasi contatto con Jiri Pelikan, un eroe della Cecoslovacchia soffocata da Breznev e che diventerà, per Craxi, eurodeputato socialista. Tanto meno, il segretario del Pci si ricorderà mai dei polacchi di Lech Walesa.

Domenico Bilotti parla dello “stato sociale godereccio” di Craxi. Si informi sui numeri, perché durante la presidenza del Consiglio Craxi si concluse la riforma sanitaria, si vinse la battaglia sulla scala mobile, l’Italia cresceva a un ritmo del 3% e la produttività del 25%. È vero che il debito si era alzato all’89%, ma con le misurazioni che seguirono dopo pochi anni si sfondò ogni quota svendendo oltre tutto pezzi di industria italiana. Senza dimenticare che, a quei tempi, Milano era una delle tre città più ricche del mondo. Fatto che probabilmente gli attuali Di Maio e Toninelli non sarebbero nemmeno in grado di immaginare.

Veniamo infine alla “questione morale”, che vedeva in Craxi l’unico che ammise che il finanziamento dei partiti era fatto in modo illecito e andava riformato. E questa ammissione fu addirittura giudicata un’aggravante dal noto pool delle “manine sporche”. Si dimenticò invece tutti i finanziamenti illeciti che il Pci aveva ricevuto da una potenza nemica come l’Urss e cancellati con una amnistia del 1989. Basterebbe sfogliare L’oro di Mosca di Gianni Cervetti, “Oro da Mosca. I finanziamenti sovietici al Pci dalla Rivoluzione d’ottobre al crollo dell’Urss con 240 documenti inediti dagli archivi moscoviti”. Forse si potrebbe aggiungere uno sguardo al Libro nero del comunismo di Stéphane Courtois, che riguarda anche una parte italiana. Poi fare una ricerca solamente giornalistica sulle attività di Armando Cossutta, su quelle dell’Italturist, sui piani paramilitari di spionaggio di Ugo Pecchioli. Come sarebbe interessante che Domenico Bilotti facesse un’inchiesta sui movimenti del conto corrente ASS 1002033938/560 della Bank of Cyprus, filiale di Londra.

Concludendo. Si può essere a volte in disaccordo con Ernesto Galli della Loggia, ma non quando intervenne in un convegno dell’Istituto Gramsci e disse: “Non c’è nessuno storico italiano degno di questo nome che abbia sostenuto che il Pci fosse un partito eterodiretto, cioè un burattino. Il punto non è l’eterodirezione, ma il legame di ferro, il fatto che, pur in un complesso intreccio, il decisore di ultima istanza fu sempre, fino al 1989, l’Unione Sovietica”.

Una volta François Furet, autore de Il passato di un’illusione, chiese a Massimo D’Alema: “Ma quelli che frequentano i festival dell’Unità hanno compreso che l’illusione è finita?”. L’Italia dei Toninelli vecchi e nuovi è un mistero di ricordi storici. L’Italia attuale è quella dove trionfa il “dipietrismo storiografico”.