Quando Socrate viene condannato a morte, resta per qualche tempo in tribunale in attesa delle formalità burocratiche prima dell’incarcerazione e si intrattiene a chiacchierare con gli amici e coi pochi giurati che hanno votato a suo favore. Racconta loro un fatto straordinario: il suo dèmone, che l’aveva sempre avvertito quando correva un rischio, quel giorno non si era fatto sentire, illudendolo sul buon esito del processo. Per questo la condanna era stata una sorpresa e una delusione. Ma ora capisce che l’assenza del segno previsto indica che la morte è un bene e che sono nel torto quanti la considerano un male.



Anche senza la testimonianza del segno potrebbe procedere per ragionamento: o la morte è la fine di tutto, un lungo sonno, rispetto a giorni e notti dolorosi, oppure è un passaggio in un luogo in cui incontrare i grandi poeti, i giudici onesti, i perseguitati, e tanti con cui parlare, per tutta l’eternità. Ma al di là delle ipotesi, resta il fatto oggettivo del silenzio del dèmone: e a se stesso come agli amici presenti Socrate enuncia una delle più ardite certezze dell’uomo antico, forse quella meno condivisa e più precaria in mancanza di una rivelazione: “Dovete avere buone speranze nei confronti della morte e considerare questa sola cosa come vera, che non c’è per un uomo buono nulla di male, sia che continui a vivere sia che muoia, e le sue vicende non sono trascurate dagli dèi; né le mie ora sono accadute per caso, ma mi è chiaro questo, che ormai la morte e la liberazione dalle vicende erano meglio per me”.



Non è semplice, né condivisa, la sua certezza che la morte è un bene. C’è nel mito greco l’espressione del desiderio ricorrente di superare la morte, sconfiggerla per sé o per altri. Quasi sempre è un desiderio illusorio. Se la gratitudine di Apollo dona ad Admeto, ospite e padrone magnanimo, la possibilità di rinviare la morte scambiandola con la vita di un altro, la scelta di Alcesti di sostituirsi al marito crea soltanto dolore: il mito sembra dire che gli dèi non capiscono i sentimenti umani e che la morte non è solo fine, è soprattutto separazione. Il dono improvvido viene sanato da Eracle, uomo seppur figlio di un dio, che lotta con la Morte e riprende Alcesti, in un contesto che sembra più fiabesco che mitico.



Ma è un caso unico, come osserverà Platone; altrimenti la salvezza dalla morte è impossibile: quando il medico Asclepio con la sua arte ha l’ardire di restituire la vita ad un morto, Zeus lo punisce duramente, fulminandolo con le sue folgori, perché l’immortalità è l’unica vera caratteristica che differenzia gli dèi dagli uomini, gli athànatoi, “senza morte”, dai brotoì, “mortali”, e viene salvaguardata come un privilegio non cedibile. Gli dèi non salveranno dalla morte neppure i propri figli o le persone amate.

Se la certezza di Socrate che la morte è un bene non è per lo più condivisa dall’uomo pagano a cui nulla è stato svelato né promesso, è difficile da condividere anche per noi, che negli ultimi tempi abbiamo conosciuto la morte di tante persone note e care. Forse c’è nel fatto cristiano un’apparente maggiore fragilità rispetto ad un pagano come Socrate: non l’assenza di certezze, ma un attaccamento alla vita che rende la morte dolorosa e ostile. Apparente fragilità ma in effetti maggiore realismo: la morte non faceva parte del progetto divino originario, è comunque uno scandalo, una lacerazione. Ci colpisce il fatto che Gesù pianga per la mo-rte dell’amico, risusciti il figlio della vedova, la piccola fanciulla di nove anni, lo stesso Lazzaro, sudi sangue al pensiero della morte imminente. La morte, anche se san Francesco la chiama sorella, è un nemico, l’ultimo nemico che sarà sconfitto dice San Paolo, il nemico che con la vita duello conflixére mirando canta la sequenza pasquale.

Crediamo che vita mutatur non tollitur, ma alla vita come è adesso, a quel centuplo che ci è promesso fin d’ora, siamo tenacemente attaccati; crediamo nella Resurrezione di Cristo che ha aperto la via per la nostra vita eterna, primizia della resurrezione nostra e di tutti quelli che amiamo, ma questa fede non ci toglie  il timore e il dolore. Forse per questo ripetiamo tutti i giorni, più volte al giorno, la richiesta alla Madonna di pregare per noi nell’ora della nostra morte: speriamo che la sua preghiera abbia accompagnato chi ci ha lasciato, chiediamo che ci accompagni quando ne avremo bisogno.

Ma la cosa che più sorprende nel discorso di Socrate non è tanto la certezza sulla morte, quanto la fiducia nell’attenzione divina: non è la morte in genere la questione, ma la circostanza della sua morte, la condanna ingiusta da parte degli uomini che farebbe dubitare anche della giustizia degli dèi. Nulla accade di male all’uomo buono, gli dèi non trascurano ciò che succede, niente è solo casuale: al di là della colpa umana sta la sicurezza che tutto è per il bene, anche una condanna ingiusta, “tutto”, ci permettiamo di citare San Paolo, “coopera al bene”: “per chi ama Dio” conclude Paolo, ma questo Socrate non poteva dirlo.

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