La sala da tè dell’Hôtel Bauer di Venezia era, all’inizio degli anni Cinquanta, assai diversa da oggi: una sottile corrente alternata di demodé e di eleganza ne percorreva ogni angolo, ogni servizio, ogni arredo e dall’interno, dai divani e dalle poltrone la vista poteva correre da un lato sul Rio San Moisè, dall’altro su un amplissimo scorcio di Canal Grande fino all’Isola di San Giorgio.
In quella sala solevano incontrarsi ogni primavera, tre donne, celebri per i loro celebri compagni: Alma Mahler, Luisa Baccara, Elsa Respighi. Era la vedova di Ottorino ad invitare per un tè, poco prima delle cinque. Lei scendeva al Bauer verso fine marzo ed eleggeva quei divani e quelle poltrone a suo personale boudoir di ricevimento. I lineamenti del volto di donna Elsa svelavano l’origine messicana della madre; ma l’incarnato roseo (il padre, piemontese, nasceva dei marchesi Olivieri Sangiacomo) era accentuato dai capelli quasi bianchi e da un’abbondanza di talco cipriato assai Louis XV. Un lungo caftano di velluto ricamato la copriva fino ai piedi, mascherando abilmente una silhouette che non era mai stata snella ed ora s’era appesantita per gli anni.
Verso le quattro e mezzo entrava nel Rio San Moisè una lunga gondola chiusa e ne scendeva all’imbarcadero del Bauer una donna d’età indefinibile, magrissima e slanciata, il viso infantile e malizioso d’una driade boschiva e i capelli ancor foltissimi, ma striati di grigio e raccolti da un pettine spagnolo; l’ abito nero o violaceo senza epoca, una sciarpa di voile al collo, le mani diafane, lunghissime da pianista: Luisa Baccara, l’ultima amante di Gabriele D’Annunzio.
Quasi alle cinque faceva il suo ingresso nella hall una signora alta, forse sui settant’anni, drappeggiata in un vestito nero con sopra una piccola giacca damascata o chiusa in tailleurs grigi assai militari. Aveva sempre, tra i molti gioielli, dei lunghi orecchini di perle: Alma Maria Schindler, vedova Mahler, Gropius e Werfel. Veniva a piedi dal Gritti Palace. La “ragazza più bella”, gli occhi blu più incantevoli della Vienna tra i due secoli, avevano subìto con sgarbo i segni del tempo: la celebre, lunga chioma biondo scuro era ormai cortissima e con una permanente stile Eleanor Roosevelt, mentre il trucco assai marcato e artificioso faceva sì che la voluttuosa ispiratrice di Klimt e di Kokoschka ricordasse ora, più che Der Kuss e La sposa del vento, un personaggio femminile di Otto Dix o di Georg Grosz.
Tuttavia… sì, tuttavia, nonostante le loro non celabili decadenze, da quelle tre donne promanava quasi con violenza un fascino inquietante e bifronte, per l’eccezionale carisma intellettuale d’ognuna e per una solidarietà, in un modo misterioso inespressa eppur complice, antica e ancor vigente.
Le prime a conoscersi erano state, nel 1913, Luisa ed Elsa: a Roma, dal barone Rudolf Kanzler, un ricco appassionato di teatro e di musica, che ogni lunedì nel suo appartamento di Palazzo Sforza Cesarini, in Corso Vittorio, faceva “letture di musica polifonica”. Poi, nel lungo reciproco corteggiamento fra il Compositore e il Vate, pronto all’amplesso creativo in un ambizioso progetto comune, Ottorino ed Elsa, Gabriele e Luisa s’erano talora incontrati al Vittoriale, a partire dal 1932. Dopo la morte di Respighi, D’Annunzio dirà: “O Elsa, eravate presente quando gli esponevo il disegno del poema ispirato da Caterina e da Siena converse in potenze ideali, ma esemplari ed operanti. Oggi muore con lui e con me quell’opera di poesia epica e di musica epica che fu nomata ‘La Vergine e la Città’ […] Fuoco e Sangue unito per amore […] Vi bacio le mani benedette che gli furono devote fino al sacrificio intero e oltre”.
Alma ed Elsa s’erano invece conosciute a Vienna nel 1921: “E ancora un personaggio – scriverà la Respighi nelle sue memorie – anzi un personaggio simbolo della Vienna di allora: la signora Alma Mahler. Donna assai bella e di eccezionali qualità, ella riuniva spesso nella sua casa giovani artisti, letterati, pittori, musicisti. Fra tutti mi colpisce l’intelligenza eccezionale di un letterato dall’apparenza timida e riservata: Franz Werfel. Da allora, riconfermandosi in seguito in altri incontri in Italia (sempre con Alma Mahler) e in America, una buona amicizia ci ha legato a questo scrittore”.
Più tagliente al riguardo l’avviso della stessa Alma: “[Dopo Montemezzi] in seguito venne anche Respighi con sua moglie. Lo avevamo conosciuto a Roma, dove ci era piaciuto molto. A Vienna fece un’impressione meno positiva. Era venuto per fare propaganda alla giovane moglie. Aveva sposato un’allieva e ora questo marito molto più anziano viaggiava dappertutto per divulgare le composizioni dilettantesche della consorte”.
Probabilmente anche Alma e Luisa s’erano già conosciute, forse a Venezia nel 1923: “Alcuni amici erano riusciti a far sì che Franz Werfel potesse lavorare nella casa di D’Annunzio. Era uno studio stupendo, vicino alla Chiesa della Salute”.
La Baccara e il Vate erano insieme già dal 1919, quando lui l’aveva ascoltata in un concerto a Palazzo Giustiniani, dimora della sua amante pro tempore Olga Levi Brunner. Le aveva subito scritto: “Cara piccola amica, vuol venire stasera con me a pranzo? Se consente, La prego di venire alla Casetta Rossa, con la veste d’argento e lo scialle bianco e nero”. Lei ventisei anni, lui trenta di più; lei rivelazione del Conservatorio Benedetto Marcello e pianista d’incredibile talento, lui affascinato da quella bellezza strana – detta Smikrà o Rosafosca, il viso stretto, gli occhi ermetici, la chioma nerissima con una ciocca d’argento – ne farà sino alla fine la signora del Vittoriale. Dopo la morte di Gabriele, la Baccara tornerà alla prediletta Venezia, una grande carriera ormai rinunciata per amore prima, per un’artrosi poi: di sé scriverà nel 1933 in terza persona: “Ell’è morta perché non può suonare”.
Ma non era (solo) la reciproca conoscenza ad accomunare quelle tre donne: erano le loro passioni. Le passioni che avevano nutrite per i loro uomini, coniugali o libere, brevi o per la vita. Passioni irrefrenabili e totali, prive di remore, disposte a tutto, esaltate dalla grandezza leggendaria dei loro mariti e/o amanti, trionfanti d’un possesso fisico e mentale che non ignoravano esser da ascriversi alla storia. Passioni abitate da una percentuale devastante d’egocentrismo, di vanità e d’ambizione, apparentemente genuflesse in dedizione, in devozione santificante talora, purché di quel culto non s’ignorasse che loro – Alma, Elsa, Luisa – erano le uniche officianti possibili. Ognuna conosceva questo dell’altra; ognuna si sapeva con minimo scarto uguale all’altra. I larghi spazi di silenzio o di mere banalità conversative, durante quei tè al Bauer, erano in realtà densi di risonanze d’identiche memorie, d’identici amari specchi interiori, forse di mai sopiti aneliti. Certo di smisurato orgoglio.
Passione ulteriore, non discrepante da quelle fondamentali, era per tutte Venezia. Per la Baccara, s’è detto, rifugio insostituibile dopo la tempesta d’annunziana. Per la giovanissima Alma Schindler e Gustav Klimt luogo di fuggevoli, sconvolti, tristaniani incontri: il pittore la insegue nelle diverse tappe del suo itinerario di formazione per la penisola. A Genova, imprudentemente, Alma annota un bacio sul suo diario. Agli sventurati è tassativamente proibito di rivolgersi la parola: “Il nostro amore fu crudelmente combattuto da mia madre”. Venezia farà da bivio a quei due destini avversi ed avversati: “Potemmo finalmente rivederci solo a Venezia, nella confusione di piazza San Marco: tanta folla intorno, lui che giurava che si sarebbe liberato di tutto, sarebbe venuto a prendermi e mi pregava insistentemente di aspettarlo… fu come un fidanzamento segreto”.
Per la Respighi Venezia – al di là di quanto più e più volte vi aveva vissuto, cantato, ascoltato insieme ad Ottorino – voleva oggi dire il conte Vittorio Cini di Monselice. Industriale fra i massimi del fascismo, ministro per breve tempo nell’ultimo governo Mussolini, internato a Dachau dai nazisti (e da qui avventurosamente fuggito grazie al figlio Giorgio), sposato prima con la diva del muto Lyda Borelli, poi con Maria Cristina Dal Pozzo di Annone, dedicava da anni tutte le sue forze alla valorizzazione della città dei Dogi. Amico (ma nulla più) della Baccara, uomo considerato ancora assai affascinante, partecipava spesso ai tè del Bauer, accolto non senza qualche frisson dalle tre dame.
Donna Elsa all’inizio degli anni Cinquanta stava costituendo presso la Cini il “Fondo Respighi”, ossia il trasferimento dell’intera biblioteca-studio del marito, già esistente nella loro villa “I pini” alla Camilluccia, che è a dire migliaia di volumi, manoscritti, epistolari immensi, quadri e arredi di pregio irripetibile. Attratta intellettualmente e fisicamente da Cini, Elsa non faceva mistero di tal sua (ultima) passione, guardata peraltro con sfuggente, sorniona condiscendenza dal conte. Dopo lunghi tentativi, comprese che non era dignitoso insistere: ma il “Fondo” nacque e forse le bastò.
I té al Bauer non superarono il crinale degli anni Sessanta: Alma Mahler si muoveva sempre più di rado dagli Usa e una volta, prima di ripartire, annunciò alle altre che non sarebbe più venuta in Europa. “La mia vita è stata bella. Dio mi ha concesso di conoscere le opere geniali del nostro tempo prima che lasciassero le mani dei loro creatori. E se per un certo tempo ho potuto reggere la staffa di questi cavalieri della luce, la mia esistenza è giustificata e benedetta”.
La Baccara la guardò pensosa: “Non sempre il nostro star vicino ai grandi è stato compreso nella sua nobiltà e nel suo sacrificio. Che alcuni, com’è stato, mi possano ricordare solo parlando della prosa del Comandante è stato per me veramente grottesco e offensivo. Non posso essere confusa con quelle che furono i cosiddetti passatempi erotici del Comandante. Gli ho sacrificato la mia vita […] voi mi conoscete abbastanza e sapete quale era l’affetto che il Comandante aveva per me e come eravamo legati al di sopra di tutto e di tutti!”.
Elsa versò una goccia d’assenzio ancor più densa e tossica: “Il mio isolamento si fa sempre più assoluto e il mio senso di repulsione per determinati artisti oggi e determinate manifestazioni artistiche rasenta la nausea. Perché dovrei fare lo sforzo di sopportare gli uni e le altre? […] Guardo i miei cinquanta e più anni di vita nella musica in prospettiva e mi sembrano tanti! Il mio destino mi ha portata ad avvicinare una gran parte degli uomini più grandi del mio tempo e posso dire d’averne sempre ricevuto qualche dono spirituale. Ringrazio la mia sorte, anche se l’ho pagata molto cara. Che cosa stupenda la giovinezza! Quando si cammina spensierati per sentieri fioriti che non sappiamo dove ci conducono! […] Poi ci troviamo ad un tratto adulti, feriti da cose che non immaginavamo, colpiti da dolori profondi che non avevamo mai conosciuto, da infermità, da delusioni da parte di persone amate; e infine, per una caduta, per una malattia, per un male dell’anima, ci accorgiamo di essere vecchi. E il cammino fiorito senza meta si trasforma d’un tratto in un viottolo fangoso, freddo avvolto nella nebbia, che sappiamo dove conduce: alla pace, al nulla, alla morte. La morte può rappresentare il fiore estremo della vita?”.
Fu quella l’ultima volta che si incontrarono.