Seguo la politica da quando ero ragazzino e non so aggiungere nulla di originale alla critica in corso da anni sulla desolazione di uomini e partiti. E poi sono saturo, come molti, di dibattiti lontani dalla realtà, dalla vita della gente, dall’esperienza personale.
Provo allora a raccontare un pezzo di vita vissuta, in mezzo al popolo impegnato a ricostruire l’Italia alla fine degli anni 50: è un “ripasso” che può esserci utile, con la ripartenza che ci aspetta fra le macerie della pandemia.
Sono gli anni dei partiti di massa, animati da passioni e ideologie. E sono gli anni dei grandi politici: De Gasperi, Togliatti, Nenni, Pertini, Saragat, Fanfani, La Malfa, Malagodi…
Agli appuntamenti elettorali vengono per un comizio in Piazza del Duomo, che si riempie di gente all’inverosimile. I partiti dell’epoca hanno la capacità di mobilitare le masse e non mancano quelli che vanno ad un comizio perché parla un leader di valore, anche se avversario.
Mio padre c’è sempre, tra le prime file, e mi porta con sé, anche se sono un ragazzino.
Sul palco sventolano le bandiere e prendono posto i notabili del partito. Per ultimo, appare il politico tanto atteso: si leva un unico, lungo applauso, mentre il cognome del leader è scandito in coro dalla folla.
Durante il comizio, poi, il clima è da stadio: ovazioni, applausi, qualche rara bordata di fischi e relativo parapiglia subito sedato dal servizio d’ordine. Alla fine, gran parte della gente defluisce lentamente nelle vie laterali.
Restano, disseminati nella piazza, i capannelli: gruppetti di appassionati che si raccolgono a commentare il comizio concluso, disponendosi attorno ai due – di fede politica diversa – più documentati e capaci di reggere un confronto.
È finito un comizio. Mio padre, ad alta voce, si dice soddisfatto per il discorso appena sentito dal segretario nazionale del partito di turno. Un signore nei pressi, molto distinto, lo sente, s’indigna, va fuori dai gangheri e guarda mio padre con disgusto perché – dice – occorre rivoltare il paese “come un calzino”… Ma come fare, finché esistono “borghesi” così, che apprezzano i politici servi dei “padroni”?
Si forma subito un capannello con una decina di persone, che aspettano la reazione di mio padre. Essa arriva immediata, con una punta di perfidia: “Mi scusi, oggi non ho indosso la divisa ma le assicuro che sono un tranviere… non sapevo di appartenere alla borghesia, intesa come entità sociale, politica, economica…”.
Mio padre volutamente alza il livello culturale del confronto – ha letto anche qualcosa di sociologia – e scandisce le parole, fingendosi sorpreso dalla novità: la borghesia comprenderebbe i tranvieri delle case di periferia.
Il signore distinto, in cappotto di cammello e sciarpa di cachemire, sembra preso in contropiede e mio padre, imperturbabile, prosegue: “O forse lei vuol dire che io sono un proletario che ragiona da borghese, mentre lei è un borghese che ragiona da proletario?”.
Il signore distinto ha uno scatto d’ira: “Io so cos’è lei, col suo italiano corretto e le buone maniere… Lei è il classico fallito, che non è riuscito a finire gli studi e si è ridotto a fare il tranviere: ma è borghese ‘dentro’…”. Il signore distinto è ormai incontenibile, con gli occhi fuori dalle orbite: “Io sono un architetto e ho uno studio mio, affermato… ma sto coi proletari e sarò dalla loro parte quando ci sarà la rivoluzione!”.
Io sono un ragazzino e il tono minaccioso di queste parole mi impressiona; la rivoluzione mi ricorda la violenza della guerra che ho vissuto nei racconti di casa mia. Guardo le facce dei presenti e mi tranquillizzo: seguono attenti e sembrano solo interessati a quanto dirà ora mio padre, che ribatte garbato, senza apparente animosità: “Mi scusi… e quanto dovrebbe durare la rivoluzione? Cinque giorni?”.
“E perché?”, chiede stranito l’architetto.
“Beh, vede – risponde comprensivo mio padre – quelli come lei, il venerdì sera, partono per il weekend…”. Scoppia una risata che coinvolge tutto il capannello: “Forse il signore vuole rifare le cinque giornate di Milano…”, rincara un altro dei presenti, e giù una nuova risata.
L’architetto, livido, alza il bavero del cappotto di cammello e se ne va imprecando. Contro il proletariato presente.