Armando Palmegiani e Ruggero Perugini, per anni direttore della Squadra Antimostro di Firenze, in Un uomo abbastanza normale. Il mostro di Firenze 30 anni dopo (Armando, 2022) raccontano gli anni delle indagini e della lenta ricostruzione del profilo dell’assassino seriale che portò all’incriminazione e al processo di Pietro Pacciani.
Armando Palmegiani (Roma, 1965), è un criminalista ed esperto di scena del crimine, docente di criminologia, criminologia clinica e psicopatologia forense; nel corso della sua carriera, oltre una serie di saggi che ricostruiscono casi famosi, da Girolimoni (2011) a Elisa Claps (2019), si è occupato sul campo di molte vicende di cronaca nera, fra i quali vanno citati la bomba di via dei Georgofili nel 1993 a Firenze, l’omicidio di Marta Russo e quello di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin.
Quanto a Ruggero Perugini (1946-2021), i suoi diari rappresentano l’anima di questo volume: dopo la laurea in giurisprudenza si specializzò in criminologia clinica e fu uno fra i primi italiani a frequentare i corsi dell’Accademia di Quantico, dove vengono formati gli agenti dell’Fbi. Giunto, dopo vari incarichi in tutta Italia, in Toscana, ha condotto le indagini sugli omicidi del Mostro di Firenze.
Tutto iniziò quando un sabato sera, il 6 giugno 1981, due fidanzatini furono uccisi nella loro auto, nei pressi di Scandicci, a colpi di pistola e di coltello. La mattina del giorno dopo le forze dell’ordine intervenute sulla scena del delitto scoprirono, per giunta, delle mutilazioni inferte sul corpo della ragazza: quello stesso giorno, il 7 giugno 1981, nasceva ufficialmente, per l’opinione pubblica, “Il mostro di Firenze”, cui furono attribuiti sedici omicidi, commessi nella provincia del capoluogo toscano fra il 1968 e il 1985. Sì, perché al Mostro venne attribuito anche un duplice omicidio precedente, quello di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, uccisi il 28 agosto 1968 attorno a mezzanotte con otto colpi di pistola calibro 22 LR mentre la loro auto era ferma in un viottolo sterrato nei pressi del cimitero di Castelletti di Signa,
Scampò alla morte il figlio di Barbara Locci, Natalino, di 6 anni, che dormiva sul sedile posteriore, sotto una coperta. E fu proprio quel bambino che, fortunosamente e misteriosamente scampato alla morte, se ne andò vagando attraverso la campagna, finendo per suonare al campanello di una casa di via del Vingone, svegliando la coppia che lì viveva, i coniugi De Felice, e raccontando loro che sua madre e lo “zio” – così Barbara Locci definiva i suoi amanti al beneficio del figlio – erano morti. Nel giro di due giorni, il caso fu chiuso, perché i carabinieri, dopo avere interrogato Stefano Mele, il marito della vittima (il quale accusò uno dopo l’altro alcuni degli amanti della moglie, fra cui Salvatore e Francesco Vinci, cui poi chiese perdono), raccolsero infine la confessione dell’uomo, che, a leggere le carte di allora, appare suffragata anche da un certo numero di riscontri oggettivi.
All’epoca non sembrava avere importanza il fatto che la pistola non fosse stata mai rinvenuta là dove Mele aveva dichiarato di averla gettata: nel marzo del 1970 egli fu condannato a 13 anni di reclusione, come assassinio e come calunniatore. Per molto tempo la verità incontestata sarà quella racchiusa nelle pagine della sentenza della Corte d’Assise: un banale, tardivo omicidio d’onore.
Anni dopo, quando gli inquirenti si troveranno di fronte agli altri casi di omicidio di coppiette, anche questo duplice omicidio verrà attribuito a quell’entità, sfuggente, che prende forma via via attraverso la raccolta sfinente di dati, lo studio continuo, l’analisi delle scene del delitto, e che verrà detta appunto il Mostro di Firenze. Il volume ci mostra quindi come, con pazienza certosina, il cerchio delle indagini si stringerà sempre più sulla figura di Pietro Pacciani, un contadino della campagna fiorentina (già colpevole di un fatto di sangue nel 1951, quando uccise l’amante della fidanzata, e condannato in seguito anche per abusi sulle figlie), che verrà condannato per i delitti, e che morirà nel 1998.
Il volume ci mostra come si costruisce un’indagine: il lavoro continuo, l’attenzione a ogni singolo dettaglio, i tempi lunghi, la sensazione, per molto tempo, di stallo, sino a quando la situazione non pare sbloccarsi, e anche, in fondo, l’ossessione che certi fatti e certe ricerche costituiscono per gli investigatori. Come spiega Palmegiani, è molto difficile, per chi non è del mestiere, capire davvero quale possa essere il rapporto fra un poliziotto e un’indagine: la “sua” indagine.
Per esperienza personale, Palmegiani assicura che si può essere legati a un caso come a una donna, e forse anche più che a un amore: se ne può essere gelosi, esaltati, delusi, appagati, a volte anche distrutti, fisicamente ed emotivamente, e, tuttavia, continuare a esserne innamorati, legati a doppio filo. Del resto, aggiunge Palmegiani anche con una certa amarezza, è impossibile che un investigatore, un investigatore di razza, per quanto navigato, equilibrato, di grande e comprovata esperienza, non si porti “il lavoro a casa”, talvolta sottraendo a moglie, figli e agli altri affetti il tempo per dedicarlo al “suo” caso.
Un uomo abbastanza normale piacerà moltissimo a tutti coloro che vogliono vedere e scoprire come si dispiega, con quali mezzi, con quali forze, con quali tempistiche, un’indagine su un caso di cronaca nera: nessun colpo di genio isolato, alla Sherlock Holmes, ma un pazientissimo, acutissimo, critico lavoro sui dati, per ricomporre un puzzle sanguinoso e intricatissimo.
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